Uomini e montagne

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    La Guerra Bianca riguardò una parte del fronte alpino oltre i duemila metri di quota. Nessuno nella storia del mondo aveva mai vissuto e combattuto il nemico in un ambiente simile, affrontando disagi naturali incredibili, lontano da tutto. Ripercorrere oggi i numerosi sentieri che attraversano quelli che furono teatri di guerra, non ha il sapore di una escursione, ma piuttosto di una lezione, una sorta di immersione nella storia, in un ambiente magnifico dove su tutte svetta la piramide dell’Adamello, elegante e severa. Una montagna che per gli alpini ha assunto un ruolo identitario, ormai familiare. In estate le lunghe ore di luce nelle giornate di sole, ci consentono di conoscere questi luoghi seguendo uno dei tanti itinerari possibili.

    Il nostro si snoda tra Trentino-Alto Adige e Lombardia, parte dalla Malga Matarot, nella selvaggia Val di Genova e termina a Malga Caldea, sotto ai Laghi d’Avio, raggiungibile in auto dal centro abitato di Temù, in Valcamonica. Serviranno fiato, gambe, uno zaino ben equipaggiato per affrontare rocce, neve e ghiaccio e due giorni pieni. A 20 km da Pinzolo si raggiunge il Ponte delle Cambiali in fondo alla Val di Genova e da qui, per un sentiero nel bosco, la Malga Matarot Bassa (1.790 m). Ed è a questo punto che si comincia a scarpinare sul serio: con l’aiuto di alcune corde fisse si supera il fianco destro della valle, raggiungendo il ghiacciaio e puntando poi verso il rifugio Lobbia-Ai Caduti dell’Adamello. Siamo a 3.040 metri di quota: si apre davanti a noi quel che resta del mare di neve che un tempo, fino a una quarantina d’anni fa, colmava la conca coprendo ogni roccia. Sembra lo si possa navigare, almeno con il pensiero.

    Ci parla, ci abbraccia, ci fa sentire vivi. C’è il tempo di una visita all’Ippopotamo, il cannone da 149G trasportato fin quassù dagli alpini: dal rifugio ci si abbassa, si traversa sotto Cresta Croce rimontando poi in verticale il fianco della montagna, come una scala, un gradino e poi un altro. Lo sguardo si alza alla ricerca del traguardo per tirare il fiato. Ancora non si vede; si procede così, senza parlare. E d’un tratto eccolo gigantesco davanti a noi! Un pezzo di storia. Silente reliquia.

    Una foto e rientro al rifugio dove Romano, gestore sorridente e sempre disponibile, è pronto a servire la cena. L’indomani si parte all’alba, se il tempo è stabile e la nebbia assente, è possibile procedere sulla Vedretta del Mandrone e dal fianco meridionale raggiungere la vetta dell’Adamello a 3.539 metri. La Nord precipita verso la Val d’Avio, tutto intorno si insegue una catena infinita di montagne. Per la discesa occorrerà considerare le condizioni del ghiacciaio. Se l’innevamento lo consente, superate le rocce terminali dell’Adamello, si aggira il Monte Falcone e si continua in prossimità del filo di cresta, accanto al Passo degli Inglesi in direzione del Corno Bianco che si raggiunge con facile salita su rocce e ghiaccio. Si scende al Passo Brizio.

    Kit da ferrata, imbraco e caschetto per affrontare in discesa il sentiero attrezzato che in meno di 2 ore ci condurrà al rifugio Garibaldi (2.550 metri) e da qui, per facile sentiero, alla Malga Caldea. Questo palcoscenico maestoso vide una guerra di posizione lentissima, a tratti atroce. Vide la natura infierire sull’uomo spogliato, inselvatichito, plasmato dalla solitudine. Ma rinsaldò i legami tra gli alpini fino a renderli eterni. Legami che si posero come fondamenta per la nascita dell’Associazione.

    E ancora oggi, durante i pellegrinaggi annuali, nascono nuove amicizie, si rinsaldano gli antichi affetti come in un ciclo continuo di vite che testimoniano e tramandano. Il fronte alpino fu una sorta di forza generatrice, ce lo racconta Gianmaria Bonaldi nel suo “Ragù”: “Voler bene ai propri soldati così, non è difficile poi chiedere loro di morire accanto a te e portarli a sbattere contro una posizione che si sa già di non poter prendere, ma si tenta lo stesso, anche se si è convinti della inutilità di morirle dinanzi, perché è buona usanza montanara compiere il proprio dovere, fino in fondo, senza discutere, senza badare alla ricompensa o alla medaglia, perché niente vale la soddisfazione di averlo saputo adempiere tutto, contro ogni ostacolo, contro ogni difficoltà.

    Ecco perché non ci siamo mai perduti di vista, anche a guerra finita e siamo più legati di prima, adesso che non sono più vincoli di disciplina, ma soltanto di affetto, quelli che cementano la leggendaria fraternità alpina. Ci è parso giusto e naturale seguitare a volerci bene, come allora ed è troppo grande premio alle sofferenze di quattro anni di guerra, trovarci in mezzo ai nostri uomini, col cappello in testa, Alpini sempre, anche se gli anni passano, anche se le pelate aumentano”. Un palcoscenico capace di restituirci tutto questo, perché la catena della tradizione continui.

    Mariolina Cattaneo