Uno spettacolo che fa discutere

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    Contro ogni previsione mi arrivano sul tavolo molte lettere a commento del programma televisivo “La Caserma”. E il dubbio prende corpo sotto varie domande. Possibile che tanti alpini si stiano convertendo ai reality, emigrando dalle baite alle Isole dei famosi o nei salotti dei Grandi Fratelli? Ovvio che no. Non sarà per caso, allora, che dietro allo spettacolo di quattro sbarbatelli in cerca di notorietà, si sia risvegliata la ferita per un servizio di leva, cancellato nei fatti se non nelle parole? Ovvio che sì.

    È un dato di fatto che da tempo, di fronte a certo degrado educativo, circola tra la gente una battuta: ma quanto gli farebbe bene a ‘sti ragazzi un po’ di naja! Solo che dopo, a frenare le aspirazioni e la volontà di concretizzare, si mettono di traverso gli esperti del dubbio, gli angosciati dal militarismo incombente, i pacifisti delle chiacchiere e qualche volta degli oremus… i politici del ben altro e quelli del chissenefrega. Amen. E allora a tener vivo il cerino del sogno restano sulla piazza soltanto gli alpini, con la tenacia degli irriducibili, la speranza dei visionari, la generosità di chi vede oltre e la voglia di battersi dei mai rassegnati. Tutti o quasi tutti.

    Sarà per questo sogno che anche un reality diventa motivo di interesse presso la grande famiglia alpina. Ma andiamo con ordine. La Rai, sull’onda di un programma vincente precedente, “Il collegio”, decide di metterne in piedi uno nuovo, questa volta di stampo militare. L’ambientazione è in Trentino, a San Giuliano di Levico per l’esattezza, dentro un istituto religioso, che ha tutta l’aria di una caserma (ma niente è meno difficile da immaginare di qualche baffuta superiora con l’anda da generale o di qualche prevosto col tricorno da maresciallo). Si opta così per un docu-reality, che a differenza dei classici che vanno in diretta, viene girato e poi montato in studio. Ufficialmente per evitare i tempi morti. Ma soprattutto per decidere quali scene far passare, quando mostrare un episodio, come far emergere il personaggio… Insomma, un piatto cucinato dagli chef della comunicazione per imboccare lo spettatore, incentivandone la bulimia.

    Come succede anche in cucina però, non sempre le ciambelle riescono col buco. A un tre stelle Michelin, talvolta bisogna adattarsi al rancio della zia Marietta. E così anche i ventuno partecipanti, finti ribelli in cerca di un domatore, finiscono per servirci un piatto poco credibile. Son quasi tutti volti noti della comunicazione e sono lì in attesa della consacrazione definitiva. Pronti a obbedire, fingere e tacere, purché… Esattamente l’opposto di una naja vera, dove nessuno di noi ha cercato di diventare un influencer, coccolato e pagato. Mesi trascorsi sorridendo, faticando e sacramentando, mentre cresceva dentro il seme della responsabilità, destinato a fiorire una volta tornati a casa e inseriti nella vita civile. Si capiscono in questa logica le dichiarazioni di Paolo Frizzi, Presidente della Sezione trentina, quando afferma: «È tutt’altro che un reality: è un prodotto spazzatura. Non rivedo in quei ragazzi né mio figlio diciottenne, né i suoi amici.

    È evidente che i protagonisti sono stati scelti per fare spettacolo, perché di spettacolo si tratta. È una sceneggiatura, che sta andando a toccare valori che sono tutt’altro che oggetto di scena, compresa l’uniforme» e ricorda, per sottolinearne il valore e la serietà, il progetto che l’Ana porta avanti da anni, ossia il servizio obbligatorio inquadrato nell’Esercito per formare volontari della Protezione civile.

    Ma giusto per non concludere sconsolati, prendiamo del programma almeno la provocazione, ossia la speranza di vedere, fuori dalle scene virtuali dello spettacolo, la realtà calata finalmente nel vissuto di tanti giovani.

    Bruno Fasani