Una strada per i giovani

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    Il Coronavirus ha acceso un faro sulla necessità di avere associazioni, come l’Ana, depositarie di valori e principi assimilati durante il servizio militare obbligatorio, prima della sua sospensione. Purtroppo la naja è dal 1º gennaio 2005 “ordinariamente inattiva”, dizione tartufesca usata nella legge del 2004 quando, in pratica, ne ha disposto l’abolizione. Oggi a quindici anni, nonostante le proposte di legge presentate dalle associazioni d’Arma per il “ripristino di un periodo di servizio obbligatorio dei giovani a favore della Patria, nelle modalità che la politica vorrà individuare”, non vi è stato alcun provvedimento concreto in tal senso. In gran parte i politici, per sfuggire al problema, auspicano forme fumose di un “servizio civile universale, ma volontario”, che pare confezionato per essere esportato sulla luna. Proprio in questi giorni si tocca con mano la necessità di colmare un vuoto educativo e legislativo di fronte ai problemi creati dalla pandemia del Covid-19.

    La drammatica situazione ha evidenziato la pronta presenza attiva dell’Ana, che si è resa immediatamente disponibile ad intervenire con le proprie strutture, con i propri soci, presso i numerosi ospedali in difficoltà nei loro “pronto soccorso”. Infine è stata messa immediatamente a disposizione del Dipartimento di Protezione Civile Nazionale la struttura dell’Ospedale da Campo Ana, appena è stata richiesta. Gli alpini, soci e amici, hanno iniziato immediatamente a montare le strutture e dispiegare i mezzi dell’Ospedale da Campo, presso l’area Ente Fiera di Bergamo, con il supporto logistico della Protezione Civile e della propria colonna mobile. Quello che era partito come struttura campale di emergenza, a opera ultimata, è diventato a tutti gli effetti un presidio sanitario con 14 camere per 142 posti, di cui 72 di terapia intensiva e sub intensiva, in pratica un nuovo reparto aggregato all’ospedale Papa Giovanni XXIII. Un progetto specificatamente studiato per abbattere la possibilità di contaminazione.

    L’unico caso in tutto il mondo, tanto è vero che l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha chiesto di valutarlo perché potrebbe diventare un modello da esportare in altri Paesi. L’opera degli alpini è stato il volano che ha innescato straordinarie sinergie sul territorio aventi come protagonisti tante ditte e artigiani volontari, accorsi a fianco delle penne nere, lavorando gratuitamente con competenza, passione e dedizione, 24 ore su 24. Circa 500 i volontari, tra questi 300 artigiani bergamaschi, 150 volontari della Sanità Alpina e 40 della logistica della Protezione Civile Ana. Così hanno messo in funzione l’ospedale in soli sette giorni, dal 24 marzo al 1º aprile con turni di dodici ore. Un’opera realizzata grazie anche al fondamentale e generoso supporto di tantissimi finanziatori, sia a livello locale che nazionale.

    Operativo da domenica 5 aprile, l’ospedale, lunedì 6, ha accolto i primi quattro pazienti dalle degenze del Papa Giovanni XXIII sanitariamente responsabile, mentre gli alpini della Pc hanno continuato a supportarlo logisticamente. Nella struttura hanno poi iniziato la loro opera anche un contingente medico e sanitario (10 medici e 24 operatori sanitari) di Emergency ed un reparto militare russo di 104 persone (tra cui 32 medici) che hanno provveduto anche alla sanificazione di 65 residenze per anziani (Rsa) della bergamasca. È il caso di aggiungere che, in questo caso, russi e alpini hanno “combattuto” insieme. Sono poi stati attivati altri moduli di degenza ordinaria Covid, resi operativi grazie ad altri 12 medici, 31 infermieri, oltre a personale tecnico e di supporto reclutato dal Papa Giovanni XXIII. Così ha commentato l’opera il Presidente nazionale Sebastiano Favero.

    «L’Associazione Nazionale Alpini ha risposto ancora una volta alla richiesta di aiuto che veniva dal territorio e l’ha fatto con la disponibilità e l’efficienza che da sempre la contraddistinguono. Questo è stato reso possibile dalla disponibilità permanente di personale alpino preparato e qualificato: un patrimonio di inestimabile valore per la nostra società, che rischia però di essere disperso in un futuro non troppo lontano se non saranno messi in atto progetti che coinvolgano obbligatoriamente i giovani in un servizio al Paese». In pratica, la richiesta per il ripristino della naja anche se con modi e tempi diversi dal passato. C’è da sperare che i politici italiani si rendano conto che tra qualche anno gli alpini non ci saranno più, così come altri giovani che hanno vissuto l’esperienza di un servizio obbligatorio, militare o altro, al servizio della propria Patria. Un periodo in cui maturano valori e principi condivisi e si cementano amicizie per una vita.

    C’è il rischio che, se non cambiano alcune scelte, ognuno si dedichi solo al proprio orticello poiché non ci saranno più indirizzi e stimoli ad essere comunità. Ciò dovrebbe preoccupare i politici, se avveduti e non distratti dalla smania di raccattare solo applausi. Purtroppo questa strada è già iniziata con il “reddito di cittadinanza”, mentre i giovani avrebbero estremo bisogno di un “servizio di cittadinanza” obbligatorio.

    Luigi Furia