Una sera d’inverno

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    Como, una sera d’inverno, tanti anni fa: era l’inizio di quei formidabili anni Ottanta e della “Milano da bere”. Una vecchia trattoria del centro storico, in un angolo un po’appartato e remoto. Il lago, poco distante, s’intravede appena tra le vecchie case, lungo la strada che sale a Menaggio. Nevica. Abbiamo scoperto questo piccolo e semplice locale, appena fuori mano: ci veniamo, ogni tanto, dopo l’intensa giornata in caserma, dove come giovani sottotenenti, prestiamo servizio nella guarnigione cittadina. E poi ci sono anche due belle ragazze: forse le figlie del padrone, chissà!

    Ai tavoli, poca gente. Gli altri se ne vanno presto. Rimaniamo solo noi. Il cameriere – sui sessanta, giacca bianca, papillon nero – si aggira nella sala: toglie i piatti, rassetta le tovaglie, sistema le sedie. Poi, viene da noi: «Volete altro?». Ha gli occhi azzurri, i capelli radi, lo sguardo un po’ misterioso, sorridente, ma come velato da una leggera malinconia. Ordiniamo. Torna, poco dopo, col dolce. Uno di noi sta parlando degli impegni dell’indomani: ci saranno i tiri, il poligono è in montagna, con questa neve sarà un problema. Ascolta. Interviene: «Siete militari?». «Sì, siamo ufficiali alla De Cristoforis», risponde uno di noi. «La conosco, ci sono stato» replica. «Ha fatto il soldato lì?» gli domandiamo.

    Tace, ci guarda in silenzio. Quel velo di malinconia che avevamo notato, adesso è più evidente. Il sorriso è diventato un solco triste sul viso. Sospira. Sul braccio ha un tovagliolo: trema leggermente. Sembra che stia per parlare, ma si ferma, gli trema anche il labbro. Poi, finalmente: «Ho fatto la Russia, signor tenente». Fuori continua a nevicare copiosamente. Non passa nessuno, neanche le auto. Lo invitiamo a sedersi con noi, a raccontare. Prende una sedia. Dopo qualche istante di silenzio: «…splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace».

    Osserva, quasi divertito, il nostro stupore: «Recitavo proprio ‘L’eterno riposo’, mentre correvo, disperato, sotto le raffiche dei russi, tra i colpi dei carri e dei mortai. Lo recitavo per i morti attorno a me, per quelli che cadevano, mentre correvano al mio fianco. Lo recitavo, soprattutto, per me stesso. Sarebbe rimasto qualcuno a pregare per me, quando anch’io, tra un passo o poco dopo, sarei sprofondato nella neve, macchiandola di sangue?». Aveva vent’anni quando lo chiamarono. Abitava, allora, in un paese dell’Alto Lario, là dove i monti della Valtellina si specchiano nelle acque azzurre del lago. Era finito in Russia, con gli alpini della Cuneense. E con loro aveva percorso le sconfinate steppe di quel lontano Paese che mai avrebbe pensato di conoscere.

    Aveva dormito nelle isbe, accanto alle donne, ai vecchi, ai bambini. Aveva conosciuto quella gente, buona e generosa. Era sprofondato nella neve, sotto il peso dello zaino e delle armi. La fame. Il gelo a quaranta sottozero. I muscoli del viso bloccati, che impedivano di parlare. Le mani insensibili e quando si muovevano, ignoravano gli ordini del cervello. I piedi… ma c’erano ancora, i piedi? Le marce notturne, nell’assoluta oscurità, quel cielo trapuntato di stelle fredde e lontane. Gli attacchi, le imboscate, i compagni e gli amici morti combattendo. E quelli che no, proprio non ce la facevano più ad andare avanti e rimanevano lì, statue di ghiaccio.

    Quella volta che vide, addormentato nel ghiaccio, un compagno di scuola del suo stesso paese: se lo era caricato sulle spalle. Era andato avanti per un po’, poi quel corpo l’aveva sentito inerte, non respirava più. La morte accanto, sempre, comunque, dovunque. Parlava con pacatezza, quasi con rassegnazione, con quella venatura malinconica che avevo subito notato. Lo guardavo fisso negli occhi. Per una di quelle coincidenze che il caso o la sorte si divertono ad intrecciare nella vita degli esseri umani, incontrai di nuovo quegli occhi, ma stavolta alla fine della mia carriera, quasi trent’anni dopo. Asiago 2006: Adunata nazionale. Mi occupo del cerimoniale, per incarico del mio comando.

    È una calda mattina di un maggio davvero radioso. Il collega del comando locale mi chiama, mi dice di sbrigarmi e mi accompagna verso il municipio. Mi indica un anziano signore: cappello da alpino, la barba bianca. Fermo, immobile. È lui: Mario Rigoni Stern, il “Sergente nella neve”. Me lo presenta, lo guardo negli occhi, proprio come quella sera di tanti anni prima, a Como, avevo guardato il cameriere. Sono gli stessi e sono gli stessi anche quelli di Giorgio Rulfi, l’ultimo reduce del “Monte Cervino” in Russia, di Frabosa Soprana, l’orgoglioso decano della Sezione di Mondovì. Li ho visti pochi mesi fa, in foto, in occasione del suo centesimo compleanno. Sono proprio gli stessi per tutti e tre.

    C’è qualcosa in quegli occhi che solo chi ha vissuto una storia come quella uscendone, incredibilmente vivo, può avere. Una luce, una speranza, ma anche per quanto sia un evidente ossimoro, una pacata, composta, disperazione. Quasi il pudore di esserne tornati vivi, il ricordo di quelle interminabili notti nel gelo, la disperazione di non aver potuto salvare l’amico, il compagno, di averli visti sprofondare nella neve, oppure fermarsi per sempre trasformandosi in statue di ghiaccio.

    Ormai è quasi mezzanotte nella vecchia trattoria di Como, il vecchio cameriere adesso tace. Ha gli occhi umidi, ma cerca di non darlo a vedere, nasconde le lacrime nella semioscurità. Adesso solo silenzio. Fuori nevica sempre di più. Un grande silenzio, interrotto solo dal battito dei nostri cuori.

    Antonio Zerrillo