È il vescovo della più grande Sezione alpini d’Italia. E lui lo sa e lo ricorda con affettuosa cordialità. Parliamo di Francesco Beschi, bresciano di origine, vescovo dal 2003 e pastore della diocesi bergamasca dal 2009. La sua amicizia con gli alpini, fatta di stima e collaborazione viene da lontano, quando ancora operava nella diocesi di Brescia. A Bergamo non è stato che un confermare una consuetudine di lunga data. Ricorda che prima ancora che l’“uragano” (così definisce l’esperienza del Coronavirus) seminasse la sua ombra di morte, ma mettesse anche in moto energie straordinarie ed esemplari, lavorare con gli alpini è sempre stato semplicemente “stupendo”. Gli tornano alla mente, in particolare due singolari esperienze, un pellegrinaggio Assisi-Roma con 600 giovani e un Ortona-Roma con 350. Il tutto supportato dagli alpini bergamaschi, con una organizzazione impeccabile e straordinaria, indimenticabile. In ballo ce n’era un terzo di pellegrinaggio, con 700 giovani. Rinviato per forza di cose al 2021. Ma sempre con gli alpini al fianco.
Vescovo Francesco, cosa resta nel cuore di un pastore, dopo un’esperienza come questa?
Resta sedimentata nell’animo una sofferenza condivisa con tutti coloro che sono stati toccati da un simile strazio. E sono tante persone e situazioni che chiedevano di portare insieme il peso della croce. Quest’anno, forse per la prima volta, abbiamo avuto l’impressione che la Pasqua, che non abbiamo potuto celebrare con la consueta solennità, sia stata più vera di tante altre. Abbiamo avvertito la croce con tutta la sua oscurità, ma anche con segnali di luce espressi nella comunanza di aiuti, dall’assaporare l’essenzialità, e dalla tenuta della famiglia dentro la quale si consumavano fatiche e lutti, ma che ha dimostrato la sua forza nel reggere gli urti della vita.
Quale è stato il momento più lacerante?
C’è stato un primo momento di sconcerto, quando l’uragano si abbatteva con tutta la sua violenza. Lì abbiamo avuto la percezione che la Chiesa stesse scomparendo. Non più liturgie, chiusi gli oratori e i sacerdoti impossibilitati ad esercitare il loro ministero. La nostra fede è la fede della carne, che viene dall’incarnazione di Gesù. È cioè una fede che ha bisogno di contatto, di vicinanza, di fraternità. Per un momento abbiamo sentito che veniva meno la fede della carne. Poi, però, abbiamo avvertito anche la forza dello Spirito, dentro una miriade di iniziative, testimonianze che proclamavano la forza della vita dentro lo sconcertante scenario di morte.
Anche la gente ha avuto questa percezione positiva?
Mi ha scritto una persona molto anziana, una signora che incontrerò prossimamente, la quale mi ha detto di aver percepito la vicinanza dei preti come vicinanza di Dio.
Anche tra loro la morte ha fatto mèsse abbondante…
Ventiquattro preti diocesani in venti giorni. Alcuni di loro erano avanti con gli anni, ma la metà era in servizio pastorale attivo. Solo in un giorno ci hanno lasciato in quattro. In quei momenti l’“uragano” è devastante e non coinvolge solo la Chiesa, ma le famiglie e le comunità cristiane di appartenenza. A questo scenario terribile vanno poi aggiunti sacerdoti e suore, con le loro famiglie religiose.
Difficile non vacillare…
In quei momenti ti chiedi se la forza che ti sostiene sia adrenalina o qualcos’altro. In genere l’adrenalina, una volta passata l’emergenza ti lascia dentro un senso di spossatezza. Quando invece scopri una forza inspiegabile che ti guida in quella desolazione, allora capisci che lo Spirito è davvero colui che accompagna le fatiche della nostra esistenza.
Bergamo ha pagato un tributo altissimo di vite.
Contare seimila morti è stato uno strazio indescrivibile. Abbiamo sentito l’ombra della morte sopra la nostra terra e come vescovo ho sentito il dovere di dare voce a questo strazio. Questo è stato il motivo della mia presenza al cimitero per benedire i nostri cari, che ci lasciavano senza poter dare loro un saluto o un gesto di conforto, come meriterebbe ogni persona.
Lei accennava prima ai segnali di vita che si sono levati anche dentro questo scenario di morte.
Tra le tante cose, vorrei ricordare il mondo sanitario, verso il quale, a un certo punto, si è espressa una tale solidarietà, come se si tifasse per loro. Ma questo si spiega per quanto ci hanno lasciato vedere. Oltre alla competenza professionale, sono ragioni umane quelle che ci hanno portato a tanta solidarietà ed ammirazione. Hanno messo tutto di se stessi, con fatica fisica, ma anche psicologica e spirituale. Tante volte sono stati loro stessi ad accompagnare l’uscita da questa vita dei tanti morti con una preghiera o una benedizione, che in quei momenti era certamente un di più, il cui valore non è quantificabile, per i nostri cari ma anche per loro.
Torniamo agli alpini…
Certamente quello che abbiamo visto all’ospedale messo in piedi dagli alpini è qualcosa di unico, straordinario, non solo per la celerità con cui è stato allestito, ma per una tale qualità tecnica e professionale, da essere diventato modello, non solo per l’Italia, ma per il mondo intero. Peraltro vorrei ricordare che oltre a queste opere, che hanno giustamente richiamato l’attenzione dei media, quello che hanno fatto gli alpini in questa dolorosa circostanza e che fanno abitualmente nel territorio in cui vivono, rimane comunque qualcosa di straordinario. Fatto con generosità, discrezione e, soprattutto, per il bene comune.
Bruno Fasani