Un servizio alla verità

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    Ho ricevuto oggi il numero di maggio de L’Alpino e ho letto i due interventi sui prigionieri italiani della Grande Guerra e, da quelli, sono risalito alla lettera di marzo, la quale ha avviato il dibattito. Proverò a concentrare in poche righe un argomento che meriterebbe in realtà pagine e pagine di trattazione tanto è complesso. Riassumendo a beneficio di tutti, con dati incontrovertibili. Tra il 1915/1918 vennero catturati circa 600mila tra soldati e ufficiali italiani. Di costoro ne morirono circa 100mila. Fino al 1992, data di pubblicazione del citato libro di Giovanna Procacci, la responsabilità di quell’elevatissima mortalità fu sempre attribuita a chi li deteneva, vale a dire gli allora imperi di Austria-Ungheria e Germania, i quali, sulla base delle convenzioni internazionali vigenti, avrebbero dovuto provvedere al loro sostentamento. Il libro della Procacci segna una svolta, e ribalta completamente l’accusa: la responsabilità di tante morti è, secondo l’autrice, da attribuirsi ai vertici politici e militari italiani, i quali negarono l’autorizzazione all’invio di aiuti statali ai nostri prigionieri. La Procacci arriva a formulare un’accusa tanto grave ed infamante sulla base di un processo deduttivo: poiché la Francia, che al contrario organizzò l’invio di aiuti statali ai propri prigionieri, con 600mila prigionieri ne perse 20mila soltanto, l’autrice ne deduce che l’eccesso di mortalità subito dagli italiani vada attribuito al divieto di inviare aiuti statali imposto dalle autorità politiche e militari. Lapalissiano no? Peccato, ma dal mio punto di vista per fortuna, che la verità sia sovente più complessa e complicata delle apparenze. Cosa non funziona nel ragionamento della Procacci? 1) il divieto italiano (peraltro in stretta aderenza alle Convenzioni dell’Aja vigenti in materia di trattamento dei prigionieri di guerra le quali vietavano espressamente gli aiuti statali), non impedì mai l’invio di aiuti da parte dei privati cittadini e della Croce rossa. Tanto è vero che, a guerra finita, nei due campi principali di Mauthausen e di Sighmunsherberg, i quali servirono anche come centri di smistamento, vennero ritrovati almeno un paio di milioni di pacchi destinati ai nostri prigionieri, mai distribuiti dagli austriaci. 2) non è colpa delle autorità italiane se i prigionieri, in particolare i circa 300mila catturati nei due mesi successivi a Caporetto (da fine ottobre a fine dicembre) vennero privati sistematicamente dei propri indumenti invernali e lasciati letteralmente in braghe di tela ad affrontare il gelido inverno del centro e nord Europa. 3) non è responsabilità delle autorità italiane se regioni ricche di carbone e di legname come i due imperi centrali, lasciarono letteralmente al gelo le baracche nelle quali i prigionieri italiani vennero rinchiusi. 4) non è colpa delle autorità italiane se i prigionieri vennero inviati al lavoro coatto (vietato dalle convenzioni dell’Aja) in centinaia e centinaia di compagnie di lavoro disseminate nell’immensa Europa centro orientale e balcanica, fin all’interno dell’impero turco; compagnie nelle quali i pacchi non venivano distribuiti per la disorganizzazione esistente. Disorganizzazione alla quale è imputabile l’accumulo di tanti pacchi nei campi di smistamento, mentre per l’appunto i prigionieri italiani pativano gli stenti. La mancanza di cibo fu tremenda, ma è altrettanto inoppugnabile che le sue conseguenze negative furono enfatizzate dal comportamento criminale, contrario alle convenzioni in vigore, al senso di umanità e oso dire al buon senso stesso, che ridusse ad una condizione di schiavitù quei poveretti.

    Pierluigi Scolè

    Pubblico questa lettera che mi sembra documentata e rigorosamente logica nel suo argomentare, senza voler aprire polemiche o contestazioni di alcun genere. Guardare al passato cercando di capire sempre meglio è un servizio alla verità, che nasce da un confronto sereno tra i tanti punti di vista.