Tra storia e mito

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    «Scrivere anche nei momenti concitati del combattimento era un sistema per sentirsi vivi, una dimostrazione di umanità. Oggi chiameremmo i diari di guerra scrittura creativa, ma quei diari erano soprattutto garanzia di buon senso». Con questa immagine efficace il gen. D. Michele Risi, vice comandante delle Truppe Alpine ha aperto a Brescia i lavori della terza conferenza del ciclo “Alpini 1872-2022, le truppe da montagna custodi della memoria, esempio di solidarietà”.

    Il tema (“Alpini e montagna: storia, letteratura e miti”) era affascinante, perché non c’è dubbio che attorno a storia e gesta delle penne nere sia fiorita una ricca letteratura, che ha contribuito in maniera determinante alla creazione del mito dell’alpino. Ad affrontarlo il prof. Nicola Labanca, Presidente del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari (“Le tappe della costruzione di un mito e le sue basi reali”), il col. Franco Del Favero, capo di Stato Maggiore della brigata Julia (“Dai Mascabroni agli alpieri”) e il prof. Rolando Anni, dell’Università Cattolica (“Montagna e alpini: il territorio bresciano nella Grande Guerra e nella Resistenza”); moderatore Mauro Azzi, del Centro Studi Ana, che è coordinatore della intera rassegna.

    In una affollata Aula magna dell’Università Cattolica, presenti anche gli studenti di due quinte classi delle superiori, i relatori hanno raccolto l’invito del Presidente nazionale Sebastiano Favero, che, nel saluto, ha sottolineato l’importanza del ricordo e del fare memoria, per poter guardare con fiducia al futuro. «I miti – ha esordito Labanca – sono legittimi e necessari per lo spirito di Corpo, ma la storia è un’altra cosa e col mito non va confusa. Il legame tra alpini e montagna, dunque, è un legame ancestrale? Le tappe sono state tante, perché dalle prime quindici compagnie tutte composte da valligiani, si è passati presto ad organici più ampi e addirittura a scenari bellici inattesi, come in Africa, fino ad Adua.

    Con la Prima guerra mondiale l’Italia mobilitò cinque milioni di uomini, per cui gli alpini venivano anche dalle pianure e dal Meridione: molti scrissero delle loro gesta, codificando il mito (ricordiamo per tutti Cesare Battisti), perché gli alpini erano plasticamente funzionali alla propaganda dell’epoca». Un esempio della costruzione di quel mito furono ad esempio i Mascabroni, coraggiosi e abili montanari, che nel 1916 conquistarono, percorrendo vie ritenute impossibili, il Passo della Sentinella. «Conquista di poco conto dal punto di vista strategico – ha commentato Del Favero – ma che nell’immaginario collettivo consolidò gli alpini come gente rude ed esperta di montagna».

    Montagna che torna protagonista anche nella guerra meno attesa, ma che contribuisce alla costruzione di un altro mito, quello della lotta partigiana, che richiede non poche puntualizzazioni: «Nel territorio bresciano – ha sottolineato Anni – operarono soprattutto le Fiamme Verdi, formazioni di ispirazione cattolica, guidate da Romolo Ragnoli, ufficiale in Russia che nel dopoguerra diventerà generale degli alpini: proprio nel nome scelto dimostravano di richiamarsi alla gloriosa tradizione delle penne nere, richiamo subito compreso ed apprezzato dalla popolazione, che li accolse, proteggendoli. Nel 1915-1918 la guerra in montagna era ‘piccola’ – ha continuato Anni – rispetto ai grandi fronti del Piave e del Tagliamento, ma ebbe un successo mediatico enorme, perché il nome stesso ‘Guerra bianca’ evocava una romantica sicurezza.

    E la guerra con la costruzione di strade, sentieri e gallerie, cambiò radicalmente la montagna, i suoi pascoli e boschi, mutando anche l’equilibrio idrogeologico: eppure di alcuni gravi episodi sappiamo molto poco, come della evacuazione di Ponte di Legno, sgomberato totalmente, con la sua gente mantenuta dal Genio militare e dai consorzi agrari». «Salendo sulle montagne – ha detto Labanca riprendendo il concetto – l’alpino tornato dalla Russia si riscatta, passando dall’aver condotto una guerra di aggressione tra il ’40 e il ’43 ad una guerra di liberazione in Patria.

    Del resto, aveva dovuto confrontarsi con un regime totalitario lunghissimo, come il Fascismo, che durò ben ventitré anni. Adesso però siamo nelle Repubblica, il periodo più lungo della nostra storia e molto è cambiato, dall’entrata in scena del nucleare negli anni ’50, alla ristrutturazione dell’esercito del 1975 alle missioni all’estero, a cominciare dal Libano nel 1982. Su tutto questo però – ha concluso Labanca – manca una letteratura adeguata, una vera lacuna per il Paese. In questo può giocare un ruolo fondamentale l’Ana, che è il più grande strumento di propaganda delle Truppe Alpine». Alle Truppe Alpine moderne ha fatto poi riferimento il col. Del Favero, parlando degli alpieri, ovvero di quegli alpini (modernamente sovrapponibili ai Mascabroni) particolarmente addestrati nell’intero spettro del cosiddetto mountain warfare, attraverso la padronanza di verticalità, aeromobilità, ricerca e acquisizione di obiettivi sino al combattimento urbano nelle città in rovina.

    «La Nato ricorda – ha sottolineato l’ufficiale – che la montagna è presente in quasi tutti gli scenari operativi ed operarvi è impossibile per chi non è addestrato». Sulla storia complessa di uomini e montagna è tornato infine Anni, sempre con le vicende della lotta partigiana: «I luoghi della montagna – ha detto – sono ambivalenti, tra sicurezza, come rifugio, e pericolo. La popolazione, che per esempio mal digeriva il prelievo di animali, non era tutta coi partigiani o indifferente, nei villaggi potevi essere accolto ma anche trovarti nei guai.

    I luoghi di montagna, comunque, continuano a parlarci, anche attraverso i piccoli cimiteri dei paesini: ad esempio a Mù, oggi frazione di Edolo, vennero fucilati cinque alpini, che però hanno fatto in tempo a lasciarci preziose bellissime lettere».

    ma.cor