Testimonianze dal Golico, calvario degli alpini

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    Nel 2005, quando per la prima volta salii in cima al Golico con altri tre alpini, speravo di poter portare, un giorno, un vessillo sezionale in rappresentanza dell’ANA. L’anno successivo questa speranza si trasformò in realtà e da allora l’ascensione al Golico è diventata un appuntamento annuale, nella speranza che un giorno possa essere presente anche il nostro amato Labaro. Il 13 giugno di quest’anno sulla cima, quota 1615, c’erano ben sette vessilli in rappresentanza delle sezioni di Brescia, Carnica, Cividale, Genova, Pordenone, Udine e Vicenza che davano alla cerimonia il tono di un pellegrinaggio che testimonia come dimostra la targa apposta sulla roccia il perenne ricordo non solo delle sei medaglie d’Oro ma di tutti gli alpini che da quella montagna non fecero più ritorno. Impossibile, per chi non ha vissuto la terribile Campagna di Grecia, spiegare cosa fu il Golico, tentiamo di farlo riportando alcuni scritti che aiuteranno il lettore a comprendere. Da Vita Vissuta , del tenente Antonio Ferrante di Ruffano, btg. Gemona.

    Il Golico: il fianco nord cadeva a dirupo sulla Vojussa e sulla parte opposta del fiume, verso nord, vi erano le catene di monti Trebescines e Scindeli. Era da noi chiamato il Golgota , per gli avvenimenti che lì accaddero tra marzo ed aprile 1941. Il suo fianco ovest, verso Tepeleni, dava sul fiume Drino, prima con un pendio armonioso alla base, che poi si inaspriva di molto, con bosco ceduo e grossi arbusti terminando verso le grandi rocce della cima, quota 1615. La strada che da Tepeleni portava a Clisura era come una gola, affiancata a nord dalle aspre catene dello Scindeli e del Trebescines, dove caddero centinaia dei nostri e molti più fra i greci. Questi avevano deciso di sfondare su quel settore per potersi aprire la via sulla pianura ed arrivare al mare, convogliando in quella zona anche la famosa Divisione Creta , il miglior reparto dell’esercito greco, per assistere le già numerose divisioni impegnate. Erano certi di annientare gli italiani e già da tempo il Golico era teatro delle più dure battaglie tra le nostre truppe, Divisioni di fanteria Sforzesca , Legnano , Ferrara con reparti di camicie nere fasciste, e le loro milizie. I nostri reparti erano da tempo logorati e decimati, e toccava alla Divisione Julia rimpiazzarli.

    Dal diario di Padre Generoso, cappellano del btg. Gemona.

    Sabato 8 Marzo 1941. Durante tutta la giornata la montagna della morte è avvolta dal fuoco. Il Golico è un vulcano che erutta continuamente pietre, riempie con i suoi boati ogni valle e l’eco si perde lontano… La neve sulla vetta è spazzata ed annerita dai numerosi colpi di artiglieria. In mezzo a quell’inferno di rombi e di fuoco avanzano gli alpini: i resti del Gemona ed il btg. Val Fella. Il tributo del sangue è generoso… la quota 1615 non è sazia di Eroi e ne richiede ancora… pochi sono quelli che possono gridare: Vittoria . La quota è nostra. Passano feriti…

    Da Tempesta sulle Alpi albanesi del tenente Giovanni Zanette btg. Bolzano.

    Moroni racconta. Si è andati su all’attacco, nella notte: c’è quella quota che l’altro ieri s’è perduta e che bisogna riprendere a tutti i costi, perché il Golico non sia una maledizione più ancora di quello che è stato finora; e su, allora, con gli uomini stanchi e mezzo congelati, perché qui si è aggrappati alla parete nuda e non c’è modo nemmeno di ripararsi dalla tormenta e dal freddo; questa ha da esser la volta buona, dicono gli alpini, che tanto è una vita da cani e non ci si resiste: o la va o la spacca. Su, nel buio, cercando di far piano per sfruttare la sorpresa: ma appena fuori ecco il solito inferno dei mortai che tirano nell’oscurità come se sparassero al bersaglio da pochi metri, perché il tiro l’hanno aggiustato di giorno e sanno che non si può passare che di qua; il pendio è tutto scoperto, ripidissimo, sassoso: il mortaio arriva, volano intorno le schegge, e insieme alle schegge mille frantumi di sassi che sono altrettante schegge, sicché gli uomini van giù da tutte le parti: ma avanti lo stesso, tanto si sapeva anche prima che sarebbe andata così, e su ci si arriverà magari in pochi ma ci si deve arrivare: c’è Raho alla tua destra che urla: avanti Val Fella, con quella sua voce imperiosa in cui non c’è un tremito, ed è una voce che domina il fracasso del mortaio e la paura del tuo cuore, spingendoti avanti.

    Ma un colpo di mortaio lo fa tacere, e Raho va giù di schianto con la testa fracassata; ed ecco andar giù anche Granzotto, che aveva l’incarico delle salmerie e poteva starsene tranquillo alla base e invece ha voluto venir su all’attacco anche lui. Avanti Val Fella, battaglione d’acciaio, avanti in mezzo all’inferno degli scoppi, alla furia delle schegge e dei sassi, alle raffiche fulminee di mitragliatrice, la quota è vicina, Avanti Friùl! , sopra il corpo dei Caduti che nel buio non si vedono, ancora un balzo, e poi fuori le bombe a mano! Ed ecco Fantina che parte d’impeto come sempre, Fantina con quel suo cuore ardente indomabile, Fantina che non ha mai voluto nessuno davanti a sè nell’assalto e che cento volte abbiamo sentito ridere tranquillo e motteggiare il nemico vicino scatenato; ecco Fantina già solo davanti a tutti, i più vicini a cinquanta metri, eccolo in piedi sulla linea nemica; via tutti allora urlando Savoia , via a testa bassa per questi ultimi metri, giù le bombe a mano!

    La quota è come un vulcano lampeggiante di scoppi, qui non c’è più niente di vivo all’infuori di tre o quattro uomini rincoglioniti con le mani alzate, dappertutto morti e feriti. Ma tra quei corpi un alpino ha trovato anche Fantina e grida, e alcuni accorrono, lo sollevano: Fantina è ferito di scheggia di mortaio, ha un colpo d’arma da fuoco sopra il cuore, il braccio destro passato da parte a parte da un colpo di baionetta. Lo sollevano, i nostri occhi sono tutti su di lui, e lui sorride ancora come ha sempre sorriso in questa guerra, anche quando non c’era nessuno che avesse il coraggio di farlo, all’infuori di lui; dice: bene, credo che adesso potete anche portarmi giù.

    Si vede che ne ha ancora per poco, un misero corpo crivellato da cui l’anima generosa non vuole staccarsi. Ci sono intorno dei ragazzi che non hanno mai pianto ma che ora piangono perché Fantina muore, e di Fantina non ce n’era che uno: Fantina ora sa che non tornerà in Italia a salutare la giovane donna che lo attende, e a veder con i suoi occhi quella piccola creatura già viva nel pensiero e che tra qualche mese vedrà la luce. Pure sorride ancora quando lo adagiano sulla coperta da campo, forse per darci coraggio ancora una volta, prima di andarsene per sempre; e così i tuoi occhi l’han visto per l’ultima volta. Questi sono i nostri uomini.

    A cura di Ilario Merlin

    Pubblicato sul numero di dicembre 2010 de L’Alpino.