Stranieri in grigioverde

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    Nel corso della Grande guerra insieme a milioni di italiani hanno vestito l’uniforme grigioverde anche alcune migliaia di volontari stranieri. Taluni a titolo individuale, come fu il caso di volontari ticinesi, di alcuni albanesi, che si trovavano in Italia per frequentare corsi o scuole militari, e di giovani sammarinesi. La quasi totalità degli stranieri in grigioverde era costituita da ufficiali e soldati appartenenti alle nazionalità oppresse dell’Austria-Ungheria che volontariamente avevano scelto di continuare a combattere, ma per la libertà della loro Patria. L’organizzazione delle loro unità non fu facile, per intuibili motivi di carattere politico e giuridico.

    Il governo dette il suo assenso piuttosto tardi, spinto dal Comando supremo: si era trattata di un’iniziativa degli ufficiali addetti agli Uffici informazioni, spesso irredenti trentini o giuliani, conoscitori del “mosaico” costituito dall’impero di Vienna. Costoro avevano cominciato ad utilizzare questi stranieri, inizialmente disertori, mescolandoli ai prigionieri per avere informazioni, poi avevano formato, con i volontari, in modo dapprima ufficioso e poi ufficiale, piccole unità di contatto, per avvicinare agli avamposti soldati della medesima nazionalità ancora inseriti nell’esercito imperial-regio per indebolirne il morale, ricavarne informazioni e favorirne la diserzione. Si ebbero, dal 1917, delle compagnie di romeni, serbi, polacchi e soprattutto cecoslovacchi, suddivise a loro volta in pattuglie. L’uniforme era quella italiana, ma con mostrine, senza stellette, dei rispettivi colori nazionali. L’azione degli esponenti politici delle nazionalità oppresse si faceva sempre più pressante per l’impiego di quanti, nei campi di prigionia erano pronti ad impegnarsi combattendo per il riscatto e grigioverde la liberazione della loro Patria. Nell’aprile del 1918, finalmente, il governo mutò politica e per i volontari cecoslovacchi si aprirono i cancelli.

    Affluirono a migliaia in Umbria dove venne costituita una Divisione, spesso definita anche “legione cecoslovacca”, la 6ª, dopo quelle formate in Russia e in Francia. Era forte di circa 10mila uomini, con parte dei quadri e degli specialisti italiani e composta da due brigate, su due reggimenti di tre battaglioni, oltre a due battaglioni complementari e dai servizi. Il 24 maggio, sul Campidoglio, erano consegnate le prime bandiere ai legionari, tutti in divisa da alpino ma con mostrine bianco-rosse e, sul cappello, il falco al posto dell’aquila. Sul Piave, il I battaglione del 33º reggimento superava brillantemente la prova del fuoco a metà giugno, nonostante la forca o il plotone di esecuzione che attendevano i legionari caduti prigionieri, e durante la guerra se ne verificarono non pochi casi. La Divisione era poi impiegata sul fronte trentino, nella zona del monte Baldo, fino quasi alla fine della guerra. Gli esploratori, operativi dall’anno precedente, erano stati riuniti nel 39º reggimento esploratori, che aveva le compagnie impegnate, in piccole pattuglie, lungo tutto il fronte, dallo Stelvio al mare. Alla vigilia dell’armistizio la Divisione fu sdoppiata in un Corpo d’Armata, con aggiunti un gruppo squadroni di cavalleria, due autoblindo e un aereo Sva.

    A Padova, l’8 dicembre i legionari prestavano giuramento di fedeltà alla neonata Repubblica ed erano poi rimpatriati, mentre in Italia, con i prigionieri di Vittorio Veneto, cominciavano ad essere organizzati i primi degli oltre 50 battaglioni territoriali che sarebbero tornati in Cecoslovacchia nel corso del 1919. Alla fine della guerra, con volontari romeni si formavano tre reggimenti di fanteria, in cui vennero immessi gli elementi della compagnia romena di esploratori, che aveva operato, e bene, sul fronte insieme ai cecoslovacchi, ai romeni ed ai polacchi che avevano fornito dei volontari – poco meno di 200 – per le pattuglie di avvicinamento. Come per i cecoslovacchi, poi, al termine del conflitto con i prigionieri polacchi vennero formati in Italia un reggimento di artiglieria, uno del genio e ben otto di fanteria, a due dei quali vennero imposti nomi di eroi italiani, Giuseppe Garibaldi e Francesco Nullo. Diverso l’ultimo apporto straniero, quello albanese. Inizialmente si trattò di bande irregolari che dipendevano da capi locali e non avevano uniforme, riordinate nel 1917 in gruppi e sottogruppi agli ordini di ufficiali italiani.

    A fine del 1917, come “nucleo di base del futuro esercito albanese” vennero organizzate le Milizie regolari albanesi, in pratica, poi, una sola legione che contava su due coorti, ciascuna su tre vessilli di tre centurie di tre manipoli di 22 uomini l’uno. Gli aspiranti ufficiali erano tutti albanesi, figli di capi, mentre gli ufficiali, tranne una ventina, erano italiani. La divisa era grigioverde, con mostrine dei colori nazionali (rossonere) e il tradizionale fez bianco guarnito dell’aquila albanese, nera su fondo rosso, e con una cartuccera di fattura locale anziché le giberne. Dal maggio 1918 la legione partecipò all’ultima fase della guerra, venendo poi dislocata ad Argirocastro fino a quando, nel giugno del 1920, passò agli ordini del governo di Tirana senza che il comando italiano si opponesse. Anche in questo caso, com’era avvenuto con Cecoslovacchia, Romania e Polonia, entrati nell’orbita francese, non ci fu per il nostro Paese alcuna ricaduta di carattere politico, nonostante le spese e gli sforzi sostenuti.

    Piero Crociani