Si combatteva qui

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    La mia avventura comincia dai ricordi di famiglia. Ricordi lontani ma il cui dolore era ancora ben tangibile nell’affetto misto a profondo rammarico con cui mia nonna, ormai ultracentenaria, teneva tra le mani la medaglia al valore di suo padre caduto sul Carso. Non le rimaneva che il ricordo di lei aggrappata allo stivale dell’uniforme il giorno della partenza e quella medaglia. Storie che giacevano anche nei diari dei miei bisnonni dal fronte: ben in quattro della mia famiglia non tornarono.

    Storie che si intrecciavano nella mia mente come un eco lontano, finché un giorno, leggendo il libro “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu, è scattata quella scintilla che mi ha portato a mettere lo zaino in spalla e la macchina fotografica a tracolla. Alla prima ascensione non avrei mai immaginato che quello sarebbe stato solo l’inizio di un lungo percorso di esplorazioni. Scatto dopo scatto si è composto un reportage che ha portato in esposizione quelle storie di dolore da Milano fino a Tallinn, passando per importanti altre tappe come Caporetto, Genova, Trento, Lione e Cracovia, solo per citarne alcune.

    Salivo, con il mio cappello alpino, verso l’Ortigara vedendo i segni lasciati a terra come indelebili cicatrici. Tra le rocce e le onnipresenti schegge di bomba si trovava anche altro: pezzi di scarponi, scatolette di cibo, scampoli di uniforme e le ossa dei Caduti. Davanti a quelle orrifiche testimonianze di guerra le note e le parole dei canti alpini prendevano forma in quello che avevo attorno a me: ciò che avevo ascoltato e cantato fino ad allora era lì davanti. Quel muretto, quella croce, quei cimiteri.

    I canti alpini mi hanno guidato e ispirato alla riscoperta di quelle storie: Monte Pasubio, Gorizia, Monte Nero e altri canti si sono trasformati in luoghi da visitare di persona e, successivamente, in immagini. Mi sono spesso immerso in una natura spettrale e affasciante come una notte sotto la volta celeste con la vetta del Monte Nero, coperta di ghiaccio, illuminata dalla pallida luna. Ho ripercorso le Alpi dalla Slovenia alla Lombardia e poi sono andato più in là verso quelle storie destinate all’oblio riassunte con lucida malinconia dal canto Monti Scarpazi; per testimoniare il gelo dei Carpazi mi sono recato là in inverno. È stato emozionante affacciarsi su quelle sperdute strade innevate e trovarsi accanto a quelle croci degli innumerevoli cimiterini di guerra. Tanti i nomi degli italiani dimenticati, sia quelli del regio esercito caduti in prigionia, sia gli italiani d’Austria. Ad ogni cimitero lasciavo un lumino rasserenandomi nel vederne altri, segno che la popolazione locale non ha abbandonato quei morti, a loro estranei, e da noi condannati al silenzio della storia. Ho attraversato confini e nazioni a più riprese, spesso attraverso i valichi di montagna più remoti. Sempre sotto lo sguardo vuoto delle garitte abbandonate grazie a Schengen e all’Unione Europea.

    Da giurista, osservavo quei confini pensando all’immane sforzo fatto, subito dopo la Seconda guerra mondiale, dai costruttori di ponti tra nazioni con lo scopo di creare quella sovrastruttura che impedisse nuove guerre. L’unica vera frontiera in cui mi sia imbattuto è stata quella al confine esterno dell’Unione Europea tra Polonia e Ucraina, uscendo da un mondo, tra filo spinato, soldati e controlli estenuanti ed entrando in un altro, in guerra, dove tutte le comodità garantite dai trattati venivano meno. Al rientro, la sorpresa della giovane poliziotta polacca che, vedendo i nostri passaporti, ha esordito in italiano «Italiani?! Quanti ricordi del mio Erasmus in Italia e quanto mi manca!».

    Grazie all’università e al programma Erasmus ho conosciuto persone da tutta Europa e grazie a loro mi sono sentito a casa, sia che fossi in Polonia o in Ucraina, aiutandomi come interpreti e mostrandomi i campi di battaglia locali. Il mio bisnonno, ferito a morte, incitava i suoi uomini alla conquista di Nova Vas, saldamente tenuta da reparti ungheresi. Cento anni dopo Krisztian, ungherese, ed io, conosciutici grazie al programma Erasmus, eravamo assieme davanti alle tombe dei Caduti italiani del cimitero di Budapest pensando alla diversità tra la nostra gioventù e quella dei nostri bisnonni.

    Quel lungo cammino iniziato sull’Ortigara non è mai finito. Dalla Grande Guerra sono passato alla Seconda recandomi, zaino in spalla, sui picchi tra Italia e Francia ripercorrendo le orme di mio nonno e poi più in là, verso la ex Jugoslavia dove l’intreccio ideologico ed etnico ha dato il peggio che l’umanità avesse da offrire. Mi sono affacciato sull’orrendo abisso dell’essere umano: le foibe. Una storia che solo ora sta emergendo in tutta la sua complessa drammaticità. I giovani mi danno speranza.

    Le scuole e gli universitari seguono con vivo interesse partecipando alle conferenze e invitando nelle loro sedi, i libri pubblicati condensano l’esperienza. È una battaglia culturale di memoria. Avendo toccato con mano le tracce della guerra, apprezzo ancor di più la pace di cui godiamo, senza darla per scontata e interpreto la missione del cappello alpino come difesa delle Alpi, della sua storia e della sua pace: ricordare per non ripetere.

    Alessio Franconi

     

    L’intero reportage è stato raccolto in due diversi libri editi da Hoepli: “Si combatteva qui! Nei luoghi della Grande Guerra” (2017) e “Alpi, teatro di battaglie! 1940 – 1945” (2020). Il primo volume, in tecnica fotografica in bianco e nero, ricorda le battaglie della Grande Guerra dalle Alpi ai Monti Carpazi. Il secondo, caratterizzato da fotografie a colori, conduce il lettore alle battaglie dimenticate della Seconda guerra mondiale. Entrambi i libri contengono un’introduzione storica, il reportage corredato da didascalie e delle mappe sintetiche dei luoghi di battaglia.