Semplicemente un alpino vero

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    Si dice che da morti siamo tutti buoni, bravi e santi. Prassi delle due verità. Una a servizio della misericordia con cui smussare spigoli ed eventuali fragilità, a fianco di un’altra verità, quella vera, in cui luci ed ombre si raccontano, senza bisogno di protesi commemorative per addolcire le cose. La verità di Beppe Parazzini è una verità senza mediazioni edulcoranti. Lui era quello che diceva e quello che faceva. Convinto che ognuno deve spendersi in prima persona, mettendoci la faccia. Rivelava nei gesti, anche i più irrilevanti, la stoffa di uomo che indossava.

    Intellettualmente acuto, professionalmente emergente, spirito critico, ma sempre con onestà di intenzione. Non ci girava intorno se non condivideva obiettivi e strategie, ma si capiva che lo faceva con rigore intellettuale, puntando cuore e sguardo sugli stessi obiettivi dell’interlocutore con cui si confrontava. Al centro dei suoi interessi c’era l’Ana. Il suo passato e il suo futuro. Ma prima di tutto l’Ana, come realtà associativa, verso la quale era fondamentale smussare individualismi, protagonismi inutili e fughe solitarie. Tutto questo rigore lo portava, nello stesso tempo, ad una grande capacità di mediare, mettendo il bene comune sopra quello individuale.

    C’è un tratto di lui che solo apparentemente bisticcia con l’immagine dell’uomo lucido e razionale che tutti conosciamo. L’uomo capace di misurarsi, con la stessa lucidità, perfino davanti alla malattia e alla morte. «Si fa fatica anche a morire» confiderà poco prima di uscire di scena, non senza aver prima chiamato al capezzale il pastore della Chiesa, per aggiustare le cose della fede, perché nulla fosse lasciato al caso. Beppe in realtà era un grande sognatore, non nel senso di chi si nutre di illusioni senza fondamento, ma nel senso che era dotato di una creatività che lo portava sempre a guardare oltre. Chi non sogna si incancrenisce nel passato e nel mormorio dei brontoloni, facendo largo alla vecchiezza, quella che si nutre di pesantezza, incapace di guardare avanti. Ma il suo sogno alpino, proprio perché spinto avanti, andava a pescare spesso nel meglio del passato, sapendo che il nuovo non è bello e buono perché nuovo, ma solo se davvero è bello e buono. Proprio la sua lucida razionalità lo portava a vedere le ambiguità del presente, capace di seminare i suoi virus anche tra gli alpini.

    Mi confidò un tempo che sognava un’Adunata spartana, dove le tende prendevano il posto degli hotel, dove il verde della natura e i profili delle montagne parlavano a cuori capaci ancora di ascoltare, dove il canto corale si tramutava in sinfonia di animi prima ancora che di voci. Pensai a considerazioni un po’ naïf. In realtà la scenografia idealizzata era funzionale soltanto a ripristinare la vera filosofia che deve animare un alpino. Cominciando dalla cordialità e sincerità delle relazioni. Anche i suoi gesti più clamorosi non erano mai epici, ad uso del battimani. Erano empatici. Capaci di trascinare dentro i calici di una bevuta e di un canto, in cui dire che ci si vuole bene senza dirlo con le parole. Di Beppe ci resterà nel cuore la tenacia e la passione con cui ha fatto il condottiero dell’Ana.

    La mai doma aspirazione a ripristinare il servizio di leva, perché e purché servizio. Ci resterà negli occhi la fierezza della sua figura, incorniciata dalla finestra dello studio, mentre veniva fatta bersaglio da chi manifestava odio e disprezzo per quella bandiera tricolore che lui ostentava con orgoglio. Sapeva di essere un grande, ma sapeva che le grandezze fioriscono nell’umiltà dei piccoli gesti. Grazie Beppe. Ti accompagniamo con la gratitudine della memoria. Tu accompagnaci, come sai fare tu.

    Bruno Fasani