Scritti… con la divisa

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    Questa volta siamo in compagnia dell’alpino Augusto Graiff, classe 1917 e dell’artigliere alpino Alessandro Torresan, classe 1919, entrambi combattenti nella Seconda guerra mondiale. L’Italia, scesa in guerra contro la Francia il 10 giugno 1940, s’impegnò nella cosiddetta battaglia delle Alpi Occidentali, ma non ottenne risultati strategici importanti e l’offensiva venne interrotta il 25 giugno. L’attacco italiano fu percepito dalle popolazioni di confine come una “pugnalata alla schiena” ad una nazione ormai allo stremo, quando ormai le sorti della Francia erano segnate di fronte all’avanzata tedesca. Tra i combattenti c’era anche Augusto Graiff di Romeno, un piccolo comune della Val di Non. Faceva parte dell’11º reggimento alpini che partecipò alla campagna di Francia e, successivamente, combatté in Albania e Grecia. Chi ci ha mandato la documentazione è il figlio Giancarlo che scrive del papà: “È stato sul fronte francese e successivamente in Albania (e Grecia n.d.a.), dove è stato ferito. Trasportato da Durazzo a Bari e da Bari a Genova presso, se ben ricordo, l’ospedale Gaslini. Mi raccontava che il suo timore era di guarire presto con il pericolo di essere rinviato al fronte. Conservo molti ricordi di mio papà, che purtroppo è morto molto giovane, 43 anni. Conservo con la giusta cura il suo capello d’alpino, la sua pipa, la sua penna stilografica. Essendo figlio unico e orfano di padre invalido di guerra, sono stato esonerato dal servizio militare. Comunque sono iscritto come amico al Gruppo di Borgo Roma a Verona”. Augusto era “portaordini” e ogni giorno doveva raggiungere a piedi le varie postazioni, esposto ad ogni pericolo. Colpito durante un bombardamento in cui ci furono “molti morti tra gli alpini e molti feriti gravi”. Ferito al piede e al braccio destro – dove gli rimasero, ben visibili, delle schegge che non gli furono mai asportate – venne trasportato in infermeria da un compaesano, Marino Zucal, suo amico, chierichetto del cappellano militare. Poi via Durazzo, Bari, giunse all’ospedale di Genova. Mentre era ricoverato ricevette, con altri soldati feriti, la visita della principessa Iolanda Margherita di Savoia, come appare in una foto scattatagli durante la degenza.

    Alessandro Torresan di Preganziol, paese della bassa trevigiana, su un notes ha scritto la sua storia di combattente in Grecia. Il diario inizia con la “Canzone alla Julia”. Ecco la prima strofa: “28 ottobre giorno di storia / che ha segnato di noi la gloria / Anche la Julia oggi è partita / piena di ardor se ne andrà invitta / Contro la Grecia ed i suoi confini / marciano insieme Artiglieri e Alpini”. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, nel caso non solo figurato. Dopo l’ultimatum del 28 ottobre 1940 al dittatore greco Metaxàs, l’Italia diede avvio alle operazioni belliche. Una delle tante pagine nere del regime fascista. La campagna fu un’operazione scriteriata. Fu deciso di attaccare dai monti con la prospettiva di dover scavalcare una catena dietro l’altra di rilievi. L’idea di “spezzare le reni alla Grecia” si scontrò presto con la dura realtà: l’eroica resistenza greca, l’approssimazione strategica dei comandi italiani, le condizioni orografiche e climatiche determinarono il fallimento dell’attacco italiano. Ecco alcune annotazioni dal diario dell’artigliere alpino Alessandro Torresan sulla campagna di Grecia: “Caricato il pezzo, siamo partiti e siamo arrivati a basso della montagna, abbiamo dormito in mezzo al fiume sui sassi. Alla mattina siamo partiti e abbiamo salito una montagna alta, sempre sotto la pioggia, e quando siamo arrivati in cima abbiamo preso postazione, ma non abbiamo sparato”. Si era in stagioni di pioggia, neve e fango che rendevano problematici gli spostamenti. “Raggiunto il terzo paese ci hanno fermato per dormire (…) abbiamo dormito in un campo dove c’era il granoturco e c’era un fango fino alle ginocchia. Alla mattina siamo partiti, sotto la pioggia e abbiamo camminato tutto il giorno fino alle 10 di sera, lì abbiamo dormito al cielo sereno, alla mattina siamo partiti per andar a prendere posizione (…) abbiamo visto arrivare i primi proiettili delle artiglierie nemiche e ci hanno sparato tutto quel pomeriggio, e alla sera siamo arrivati in cima al monte e lì abbiamo scaricato i muli, e lì ci siamo messi a dormire senza far le tende. A mezzanotte ci hanno svegliati e siamo partiti di nuovo (…) abbiamo camminato fino alle 5 del mattino del 2 novembre che era il giorno dei morti, lì ci siamo fermati fino alle 10 (…) poi siamo partiti e abbiamo salito un monte e lì abbiamo preso posizione (…). Alle 4 abbiamo incominciato il fuoco, poco dopo i loro apparecchi ci hanno mitragliato e bombardato (…). Davanti gli alpini avevano bisogno di noi e didietro a noi, a 100 metri avevamo il nemico che ci sparava con il fucile mitragliatore e la mitraglia”. La battaglia continuò finché giunse il buio. Gli artiglieri alpini riuscirono a sganciarsi e, camminando tutta la notte sotto la pioggia, al mattino alle 8 ebbero mezza galletta ciascuno per poi proseguire fino alla cima di un monte dove presero posizione con i pezzi: “Siamo stati quella notte fino alle 4 del giorno 4, e lì ci hanno fatto un minestrone alla sera con un mulo che era morto. Un giorno successivo “Abbiamo salito un monte che non c’era mulattiera e i muli non erano neppure capaci di star in piedi da ripido che era e, faticando, siamo arrivati in cima, e neanche noi non eravamo buoni a continuare il camino, ma per fortuna siamo arrivati a prendere posizione”. Gli attacchi dei greci si facevano sempre più frequenti ed incisivi. I reparti italiani, mal equipaggiati e scarsamente addestrati, dovettero fronteggiare la dura reazione greca, costretti ad indietreggiare fino in Albania (dicembre 1940). “Il nemico era venuto vicino e ci siamo messi in difesa con il moschetto e abbiamo sparato a zero con le granate a palette (…) ci siamo accorti che sparavano con il mortaio sulle salmerie e il comando gruppo che erano in paese, e li hanno colpito a morte il tenente Turri, e allora noi abbiamo sparato dove era il loro mortaio e lo abbiamo colpito e allora le salmerie e il comando Gruppo erano salvi”. Ma ormai l’attacco alla Grecia era fallito ed era iniziata la ritirata. “Alla sera siamo partiti per ripiegare su Lanisa e abbiamo camminato tutta quella notte e al mattino, nel passare nel canalone, ci hanno colpito con la sua artiglieria, colpito dei miei compagni a morte e due feriti gravi e noi siamo andati in cima al monte e lì siamo stati tutto quel giorno. Scesi, appena arrivati in un paese ci hanno sparato per di dietro con le mitraglie, per lì erano passati il comando Divisione, comando Reggimento, gli alpini e la 13ª e 15ª batteria e noi della 14ª eravamo in coda a tutti”. Appena fuori dell’abitato furono colpiti dall’artiglierie greca che causò altri morti e feriti. La ritirata continuava: “Abbiamo salito una montagna e in cima al monte abbiamo trovato la neve e continuava ancora a nevicare e lì siamo stati tutta la notte con un freddo terribile, e cosa di più per noi eravamo bagnati. Tutti gelati che non eravamo neppur buoni da camminare. Alla mattina del 10 siamo tornati indietro (…) cammina e cammina fino che siamo arrivati in un paese, appena passato il paese ci siamo fermati un po’ a respirare, dopo 10 minuti che eravamo fermi, il nemico ha incominciato a spararci e ha sparato tutto quel pomeriggio e fino alla sera e alla sera noi non abbiamo potuto scappare e allora ci hanno fatto prigionieri”. Tutto ciò rese necessario l’intervento risolutivo della Germania. Operazione Marita fu il nome in codice del piano di invasione tedesco della Grecia. Queste vicende belliche si conclusero il 23 aprile 1941 con l’armistizio che contemplava l’immediato disarmo delle unità italiane e il loro trasferimento in prigionia nel caso rifiutassero di combattere a fianco dei tedeschi. Nonostante l’assurda decisione del regime di attaccare la Grecia, per gli alpini il fronte venne vissuto in un’ottica di dovere, sacrificio e lutto. Un approccio apolitico che ha garantito la continuità del “mito” degli alpini oltre il 1945. In Grecia, tra le Truppe Alpine nacque la nota canzone della divisione Julia “Sul Ponte di Perati”, proibita dal regime fascista, che non conduce da una sponda all’altra della Vojussa, ma attraversa il Sarandaporos, che confluisce nella Vojussa stessa due chilometri circa a valle del ponte, un fiume fatto rosso dal sangue degli alpini.

    Luigi Furia