Scritti… con la divisa

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    Siamo ancora con l’alpino Santo Peracchi al campo estivo 1949.

    Il 27 giugno “l’ordine del giorno segnava avanzamento sulla roccia, partiti abbiam fatto una mezzora di strada ed eccoci ai piedi della parete, ove con mano e con corda, con una gran pazienza e paura, si saliva o meglio si scalava ai piedi del Cristallo, giunti in cima trovammo le tane dei camosci, allora il nostro maresciallo in testa con il fucile carico se ne andava avanti spiando se ne poteva vedere, quando un piccolo si fece proprio alla vista con 4 colpi lo mise a terra morto. Erano le 10 del mattino e da quel punto si incominciò la discesa, arrivammo all’accampamento alle 2 del pomeriggio, mangiato il rancio di nuovo scuola comando con l’attesa della rivista del Generale, passata anche questa, vi fu il 2° rancio, fatta la pulizia della gavetta si spense un’altra giornata”.

    Si era nel 1949, poco dopo la fine della Seconda guerra, quando la fame era ancora tanta o il suo ricordo era ancora vivo, quando il bracconaggio era stato per alcuni l’unico modo per mettere qualcosa nella padella, quindi si può pensare che anche il maresciallo fosse condizionato da quei tempi in cui si faceva di necessità virtù.

    Il 28 giugno continuarono gli addestramenti, mentre il 29 giugno, S. Pietro, il nostro alpino fu “di corvée per tutto il giorno a pelar patate, lavar marmitte e rompere legna, riuscii in due o tre colpi a scrivere ai miei genitori, infine alla sera un po’ arrabbiato me ne andai in tenda e più non mi videro sino all’alba”.

    Il 30 giugno, ultimo giorno di permanenza a Carbonin, il nostro alpino decise di fare sciopero: “Appena alzati una decina ci presero per fare scorta di legna per la tappa avanti, con questo dovetti andare, ma col pensiero di non lavorare; appena giunto nella boscaglia in pochi minuti fui scomparso, mi rividero quando avevamo i muli carichi, ritorno alla tenda era mezzogiorno, dopo il rancio abbiamo disfatto le tende del magazzino e mensa ufficiali, tirai così sera”.

    Finito il campo fisso iniziò quello mobile.

    Il 1° luglio “partenza per la prima marcia al vero campo, iniziata alle 5 e passando per la Val Tofane ebbe termine alla malga alle 11 e trequarti all’altezza di 2 e 2 (m. 2.200?). Abbiamo trovato un forte vento con discreto freddo, piantata la tenda dovetti fare la sera stessa guardia e più tardi riposo”. Il giorno dopo “sveglia di buonora e, disfatta la tenda, di nuovo la partenza con le armi in spalla, gli zaini sui muli. Marciando trovai le prime stelle alpine ancora piccole, ma colte con le mie mani. Superando il Passo della Strega alto 2.970, giungemmo a vedere il luogo dove ci si fermava; si vedevano anche le 5 Torri, la Tofana grande, il Falzarego, il Gruppo Sella, la Marmolada, l’Antelao il re delle Dolomiti”. Il nostro alpino si trovava in uno dei posti più belli d’Italia, un luogo dove le montagne si sfidano non per l’altezza o la bellezza, ma per la grazia. Giunti al passo Falzarego, dove piantarono le tende, dopo il rancio della sera, i compagni di tenda se ne andarono all’albergo del passo, mentre Santo rimase solo in quel mondo incantato, dando libertà alla fantasia: “Sotto la tenda vi era solo il corpo immobile, il mio pensiero era volato lontano da me e posava sui miei cari genitori, col solo pensiero li vedevo, gli parlavo, questo però fu un breve tempo di gioia, e quando il pensiero si ritirò ancora a me […] i miei occhi si riempirono di lacrime e mentre calavano sulla faccia, alzai la mano per asciugarle e nel medesimo tempo i miei occhi si chiusero”.

    Il 3 luglio, era domenica – quindi niente marcia – e al mattino, fermo al passo, osservò “camion e corriere passare e fermarsi, tutta gente allegra che godeva la vita, ed io qui in questa uniforme. […] Così venne mezzogiorno, nel pomeriggio con 5 o 6 dei miei compagni partimmo e siamo andati a un povero paesino giù in fondo valle a circa 7 km. dal nostro accampamento, così giocando un po’ alla morra e bevuto un po’ di vino, passò veloce la giornata”.

    I giorni seguenti, 4 e 5 luglio, si succedettero salite alle cime circostanti il Passo Falzarego e una marcia fino al rifugio Nuvolau, “bellissimo posto con la vista di tutta Cortina, abbiamo fatto la foto con il nostro capitano”.

    Il 6 luglio, disfatta la tenda, di nuovo in marcia per più di cinque ore verso il rifugio Croda da Lago. Appena fatta la tenda “arrivò la nebbia e si mise a piovere, ma non c’era la legna per le cucine, abbiamo dovuto così andare a procurarla sebbene piovesse”.

    Il 7 luglio alla sveglia era ancora pioggia, “così noi dovemmo star rinchiusi nella tenda come topi e muoversi dentro in 5 senza toccare i teli se no veniva dentro l’acqua, questo durò fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio fui di corvée a lavar marmitte, pelar patate e macinare caffè tirai le 6, ma era già un po’ di tempo che osservavo una barchettina galleggiare nel lago […] con altri alpini avevo una maledetta voglia da poter salire […] fuggii dal lavoro, con gran calma mi misi a sedere nella barchetta con due colleghi e piano piano abbiamo fatto un bel giro del lago che era una vera meraviglia vedersi un simile lago a m. 2.066 ai piedi della roccia, ma ecco che rigiunse la nebbia e la pioggia, così dovetti ritirarmi in tenda”.

    Il giorno dopo, l’8 luglio, “vi era la marcia sul posto, il tempo però era brutto, ma si partì ugualmente, giunti ai piedi della roccia della Croda si doveva iniziare la scalata, ma era bagnata e di nuovo incominciava ancora a piovere, allora si decise di fare ritorno. Si arrivò in campo già un po’ bagnati e messi sotto la tenda non fece altro che piovere, si doveva fare altro che guardarsi da non toccare i teli altrimenti era un disastro di acqua, nel pomeriggio sono andato al rifugio ove ho potuto scrivere solo qualche cartolina ai miei cari”.

    Il giorno successivo, 9 luglio, smontata la tenda e fatto lo zaino, di nuovo in cammino. “Marciando si passò da Cortina d’Ampezzo e giungemmo al passo Tre Croci […] lungo la marcia non pioveva, ma appena giunti ecco l’acqua arrivare, in pochi minuti abbiamo messo in piedi la casa per poter ripararsi almeno dalla più forte, nel pomeriggio andai al rifugio e scritto due o tre cartoline dovetti far ritorno perché al rifugio non vi era nemmeno il vino, più tardi ci fu la visita del Generale che con grande familiarità ci parlò e parlò ai nostri superiori, andato questo si mise di nuovo a piovere”.

    Il 10 luglio, fatto lo zaino, “ripartimmo verso l’ignoto, e dopo un paio d’ore di marcia passammo a Misurina, da lì ci indicarono la posizione ove ci si doveva fermare, con quattro orette ancora eccoci al rifugio Longeres (ora Auronzo), precisamente ai piedi delle superbe Lavaredo. Appena arrivati facemmo le tende, ma vi era grande scomodità per andare alle cucine”.

    Quindi il giorno dopo, 11 luglio, si cambiò posto all’accampamento, “ma appena deposto lo zaino vi fu l’ordine di prendere le armi e partenza per una manovra di tiri insieme alla 59ª compagnia. Caricate le bombe sui muli si partì, passammo la forcella di Lavaredo e ci si incamminammo verso il rifugio Locatelli, nei pressi di questo rifugio ci fermarono, piazzati i mortai aspettammo con ansia il momento del fuoco […] fucilieri avanti, mitraglieri nelle posizioni delle cime e noi in fondo valle gli ultimi […] pochi minuti dopo ci fu l’ordine del fuoco, noi fummo i primi a dare inizio alla manovra, ma ecco che con tutta la voglia che avevo da sparare, con la prima bomba che misi nel mortaio, ella partì ma il mortaio andò in due pezzi, grazie a Dio che di tre che lo circondavamo non ci ha fatto niente a nessuno, questa fu la grazia più grande che abbiamo ricevuto, rimasi così malcontento a sentire le mitraglie fino alla fine della manovra, poi si ripresero le armi e via all’accampamento”.

    Il 12 luglio, riposo e Messa al campo del cappellano con l’accompagnamento della fanfara: “Nel momento della Messa eravamo squadrati davanti a quel piccolo altare fatto provvisoriamente; nella predica ci rammenta i nostri vecchi e giovani alpini Caduti proprio in queste cime, non riuscii a vincere due lacrime […] nel pomeriggio feci un sonno, poi riuscii ad avere un foglio e una busta da un mio compagno e mi dedicai a scrivere ai miei cari genitori, la sera fui di corvèe e lavate la marmitte, in pace me ne andai in tenda”. Il giorno dopo scalata alla Grande di Lavaredo (mt. 2.999) “vi fu la sveglia presto […] si partì e si diede l’attacco alla roccia alle 5 e, con molta precauzione vedendosi a volte appesi nell’aria, si giunse in cima alle 8 dove il nostro capitano contento di essere giunti tutti ci fece qualche foto; un’ora si riparte per la discesa, ma era ancora più brutta e con gran cautela ci impiegammo 3 ore e mezza, un po’ con le mani alla roccia e per certi posti con la corda, ma eccoci giunti tutti sani e salvi. Vi era il colonnello che ci aspettava e ci fece applausi”.

    Il 14 luglio, giorno di riposo con pulizia delle armi individuali e di reparto al mattino e libera uscita al pomeriggio con una capatina al rifugio per scrivere una cartolina ai familiari.

    A cura di Luigi Furia