Continuiamo ad essere al campo estivo 1949 con l’alpino Santo Peracchi. Il 15 luglio, partenza dalle Tre Cime di Lavaredo e “con una marcettina di 4 ore si fece accampamento al Rifugio Comici, appena a tempo a fabbricare la casa e poi acqua ed ancora acqua che ci costrinse a non muoversi più fino a mezzogiorno, e veniva tanto forte che si aveva paura da rimanere schiacciati sotto quei quattro teli. Nel pomeriggio si era calmata e preso il rancio dovemmo andare per legna per la cucina poi di nuovo pioggia fino a sera” che continuò per tutto il 16 e il 17 luglio, domenica, “sognavo la mia casa lontana e i miei cari che bene o male si saranno messi a festa, ed io qui sotto un riparo come un cane nel canile per potermi salvare dall’acqua più forte”.
Ma ecco tornare il sereno e il 18 luglio, fatta la sveglia di buonora, vi fu la marcia di trasferimento per la Strada degli alpini, un percorso nel gruppo dolomitico del Popera, passaggio aereo su roccia, ardito e impressionante, usato dagli alpini nella Prima guerra mondiale come passaggio tra la Forcella Giralba e la terrazza ovest di Cima Undici, Cresta Zsigmondy. “Partimmo verso le 5, passai ai piedi della Cima 11 e entrando nella Cima 12 si infilò la vera via degli Alpini, una strada scavata nella roccia in tempo di guerra, piena di pericoli; si passava in precipizi che se scivolava un piede, addio, non ci avrebbero trovato più.
Con fatica e discreta paura si avanzava, giungemmo in un punto da dover prendere molte corde per poter passarci, così a mali modi si arrivò a fare il passo della Sentinella, poi incominciammo la discesa verso il rifugio al Popera Olivo Sala. Fu tutto in mezzo al ghiaione, arrivammo alla 1 e mezzo e, molto stanchi, si fece la tenda. Era l’unica volta che ho potuto vedere ancora un po’ di bosco con foglia, perché era una decina di giorni che non si vedeva più piante pur che roccia e cielo”.
Il rifugio era una vecchia costruzione bellica riattata nel 1924 e che il 30 agosto 1930, con una adunata di alpini ed alpinisti, venne intitolato alla memoria del gen. Olivo Sala, comandante del Gruppo Popera durante la guerra 1915-1918. Il rifugio non fu mai molto frequentato anche per i pochi posti letto e con la successiva costruzione del rifugio Berti, nel 1962, l’Olivo Sala cadde in disuso. Nel 2004 fu dato in comodato d’uso alla Sezione Cai della Val Comelico che ha provveduto alla ristrutturazione, grazie anche al IV Corpo d’Armata Alpino che mise a disposizione gli elicotteri per il trasporto del materiale. Nell’agosto del 2015 è stato inaugurato un piccolo museo di guerra al suo interno.
Il 19 luglio, dopo l’impresa, “ci alzammo un po’ tardi, ma al mattino abbiamo dovuto andar per legna per la cucina, nel pomeriggio abbiamo prese le armi e facendo una piccola marcia, ritornati vi fu il secondo rancio e passai la sera andando a fragole”. Finito il campo mobile, c’erano, allora, le “grandi manovre”, alle quali parteciparono anche altri reparti. Si unirono agli alpini anche reparti di artiglieria da montagna. Quindi il 20 luglio “partenza alle 5 facendo 5 ore e mezza con corde attraverso il nevaio per arrivare a superare la forcella Ambata, anch’essa di 2.400 (mt) con le armi in spalla, poi la discesa per il fondo valle e per arrivarci vennero le 4 e mezzo del pomeriggio. Arrivammo a Giralba presso Auronzo, ero veramente stanco […] trovai tutti i miei colleghi anche delle altre compagnie, perché vi era tutto il Battaglione, così passò la sera con un po’ di allegria”. Il giorno dopo riposo, per modo di dire, poiché dovette andare al ruscello per “lavare un po’ di corredo”.
Il 22 luglio tutto il battaglione si recò sul posto dove si dovevano fare le grandi manovre e al ritorno ognuno si dovette caricare sulle spalle un fascio di legna per le cucine da campo. Il giorno appresso “al mattino di buon’ora si schierò il Battaglione intero rinforzato dalla 31ª batteria d’Artiglieria Alpina, avanzando verso la forcella Giralba per presa di posizione ma senza fuoco, quando ogni compagnia ebbe preso il proprio posto vi rimase in attesa di ordini, finché il nostro maggiore Malpaga diede l’ordine di ritirata, così in poco tempo rientrammo al nostro solito posto. Nel pomeriggio rimasi sotto la tenda pensando che era il giorno dell’Apparizione di Altino, e con amarezza ero anche in attesa di scritti dei miei cari”.
Il santuario dedicato alla Beata Vergine si trova sul Monte Altino, nella frazione Vall’Alta di Albino (Bergamo) dove la Madonna apparve il 23 luglio 1496 ad un carbonaio con i suoi due figli. Sul posto venne costruito un santuario, diventato uno dei luoghi sacri più frequentati della Valle Seriana.
Il 24 luglio, giornata festiva, il Capitano cappellano celebrò la Messa in mezzo a un prato e nel pomeriggio tanti andarono ad Auronzo, lontano 3 km.
Il 25 luglio, giorno delle grosse manovre a fuoco, “al mattino di buon’ora si partì, i fucilieri in testa, dietro i mitraglieri poi noi ed in coda l’artiglieria. Quando tutto il battaglione fu in postazione, vi furono i segnali con colpi di razzi e squilli di avanti con la tromba, incominciò il fuoco l’artiglieria, dopo una ventina dei suoi colpi aprimmo il fuoco noi che avevamo tre mortai con 15 bombe per mortaio, subito incominciarono a cantare le mitragliatrici e di seguito il fuoco dei fucilieri. Era davvero un macello, non si capiva più niente, un solo rombo di fuoco che durò circa un’ora, ed ecco di nuovo razzi e squilli di tromba per il cessate il fuoco, poi il ritorno”. Al mattino seguente riposo, nel pomeriggio addestramento, la sera di corvè.
Il 27 luglio di nuovo addestramento con “la rivista alle posizioni di due generali, il nostro maggiore e i nostri capitani e con questo fu subito mezzogiorno. Nel pomeriggio ci fu da disfare la tenda e rifare lo zaino per di nuovo ripartire, questa però fu la marcia notturna, partimmo alle 7 di sera e giungemmo al termine della marcia alle 2 di notte in una pineta; non ci si vedeva nulla, così abbiamo messo lo zaino per cuscino e le coperte in dosso sotto il bel ciel sereno”. Il mattino dopo di nuovo a legna e pomeriggio libero con un bagno nel Lago di Misurina e la sera qualche “bicchierotto” di quello nero con i colleghi di tenda.
Il 29 luglio, l’ultima marcia con la sveglia di buon’ora: zaino sui muli e armi in spalla, partenza per il Monte Piana, una montagna delle Dolomiti di Sesto di 2.324 metri dove passa il confine amministrativo tra il Veneto e la provincia autonoma di Bolzano. In pratica coincide con la frontiera che nel 1753 separava la Repubblica di Venezia con l’Impero austriaco e che durante la Grande Guerra fu teatro di uno scontro tra il regio esercito e l’esercito austro-ungarico, durato due anni. Ora è un vero e proprio museo all’aperto – trincee, punti d’osservazione, ricoveri e alcune gallerie – ristrutturato grazie al lavoro degli alpini e di alcune associazioni di volontari.
Qui, annota Peracchi, “vi rimasero 6.000 morti tra tedeschi e italiani ed ancora ora quelli che vanno a far ricupero di ghisa e altri metalli, trovano ossa e crani dei militari ed anch’io ho visto coi miei occhi due mucchietti di ossa con sopra la propria testa; un terzo di questi avanzi hanno saputo chi fossero perché assieme alle ossa vi era la piastrina di riconoscimento, ancora intatta con scritto il nome. Questo mi fece gran ribrezzo, ma era inutile, bisogna fare quello che dicono. Passati di lì, la marcia andò a finire e Dobbiaco con la durata di 8 ore e mezzo, lì si fece per l’ultima volta la tenda”. Ed ecco arrivare l’alba del 30 luglio. “Il mattino passò con l’alzarsi tardi, andare a lavarsi e poco d’altro […] nel pomeriggio il maresciallo chiamò 6 uomini per incominciare a caricare la roba sui vagoni per la mattina dopo che si partiva presto. Sul secondo camion che andava alla stazione vi era una damigianetta con dell’anice, appena arrivati in stazione andammo sul vagone e giù a canna. Poco dopo si ritornò al campo per caricare le armi, ma io e uno dei miei colleghi non riuscivamo più a stare in piedi, ciuco del tutto non so come ho fatto ad arrivare in tenda e lì mi sono svegliato la mattina.
Il 31 luglio “disfatta la tenda andammo alla stazione e partenza per Brunico, così contenti e felici di aver superato tutti i pericoli, finito il campo, passati ormai due mesi di naia e pensando che presto potremo andare a casa a rivedere tutti i nostri cari, ci siamo messi in divisa di libera uscita e siamo andati a trovare i figli, perché ormai siamo passati nel gradino dei nonni e bevuto qualche bicchierino ritornammo in caserma e addio brutta vita del campo”. Nonostante la fatica, le difficoltà e i contrattempi, alla fine del campo si fa strada l’orgoglio di avercela fatta, di portare una lunga penna nera e Santo Peracchi chiude il suo diario con le parole: “Però evviva l’Edolo. Evviva gli Alpini”.
A cura di Luigi Furia