Questa volta siamo con Antonio Zucchelli, classe 1920, internato il 10 ottobre 1943. Chi ce lo presenta è il figlio Claudio di Pandino (Cremona), la cui famiglia è oriunda dell’Alta Valle Seriana. Ricordando la sua naja alla caserma Rossi di Merano, in qualità di comandante di un plotone della 5ª compagnia mortai, racconta alcuni episodi della sua naja, tra cui il campo invernale 1963: “Il 2 febbraio, con sveglia alle 4, ha inizio il campo invernale. Con un freddo becco si imbastano i muli, si caricano i nove mortai da 107 e tutto il materiale occorrente e poi il capitano Pasquali dà l’ordine di partenza: ‘Avanti il bianco!’.
Bianco è il mulo albino Urbanio che per tradizione apre la marcia della compagnia”. Due giorni dopo, giunti a Peio, “si parte per raggiungere malga Saline a circa 2.000 metri, verso cima Vioz. Man mano che saliamo la neve diventa sempre più alta e quando arriva alla pancia dei muli bisogna spalare il sentiero. Giunti alla malga ci si organizza per sistemare la ‘camerata’ nella stalla. Si stendono le coperte e i pochi sacchi a pelo sulle due file di lettiere lasciando libero il corridoio centrale dove viene acceso un bel falò per creare un po’ di tepore, ma anche tanto fumo che appesta tutto il locale”. Sveglia all’alba e dopo aver smontano i mortai, i soldati preparano i “bastini” per caricarsi i vari pezzi sulle spalle e via fino a circa 3.000 metri di quota.
Qui rimontano i pezzi e fanno prove di tiro. Nei giorni seguenti vanno su e giù, come si usava una volta nei campi mobili militari. Claudio, alla sua lettera, allega la corrispondenza del papà Antonio che, dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, si trovava tra i soldati italiani posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco o, in caso di rifiuto, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10% accettò l’arruolamento, gli altri vennero etichettati come Imi (Internati Militari Italiani), privati delle garanzie dei prigionieri di guerra previste dalla Convenzione di Ginevra (1929) e dalla Croce Rossa. Furono quindi obbligati al lavoro coatto nei campi di concentramento. Tanti morirono di stenti, privazioni e maltrattamenti.
A guerra finita, tra quanti rientrarono a casa c’era anche Antonio. In data 10 settembre 1943 scrive alla moglie: “Carissima Rina, siamo per essere concentrati. Pare si vada verso Verona o Mantova. Sarà per poco. Stai tranquilla e tienimi d’acconto il caro Pucci (questi è il figlio Claudio di due anni n.d.a.). Bacioni, abbracci e saluti a tutti. Tuo Nino”. Lettera spedita alla moglie dall’Italia (timbro illeggibile), l’indirizzo sulla busta è scritto con calligrafia diversa; probabilmente il foglio era stato consegnato ad un estraneo, con preghiera di farlo avere alla moglie. Passano tre mesi senza notizie, finché la moglie riceve una lettera dal campo di prigionia “M.-Stammlager IV F”, datata 6 dicembre 1943: “Il mio più grande desiderio in questo momento viene appagato. È il primo scritto. Dovrò usare uno stile telegrafico, ma sarà sufficiente. Sarai in ansia per la mia sorte (…) Di salute sto bene come il mio solito. I disagi li sopporto bene.
Ci troviamo in un paesotto, perciò al sicuro dalle incursioni aeree. Lavoro in un’officina (…) alloggiato in baracche. Il vitto non è il più adatto per me, ma in compenso non faccio delle indigestioni (…) Sono forte anche nel dolore. Così desidero che sia di te. Figurati come sono in ansia per voi. Non abbiamo notizie sull’Italia, ma sempre abbastanza per stare in apprensione sulla vostra sorte. Chissà quando potrò avere un tuo scritto! (…) Siete ad Alzano o Gandellino? La nostra posizione non è stata ancora definita; pare che saremo considerati internati. Per scrivermi serviti esclusivamente della seconda parte della presente, ed unicamente scrivere a matita, chiaro, sulle righe (…) Danne comunicazione anche a mio papà”. In prossimità del Natale, il 23 dicembre 1943, scrive ancora: “Sono sempre in buona salute, un po’ più magro ma sano (…) Quante cose vorrei sapere di te, del Pucci, di voi tutti. Mentre lavoro, sono 10 ore al giorno davanti al tornio, il mio pensiero vola e pensa continuamente a voi! (…) Se penso all’Italia, penso che c’è da piangere sulle sue rovine e sulla sorte degli italiani!
Noi in camerata abbiamo fatto l’albero di Natale, ma è spoglio”. Il 2 gennaio 1943 si trova nel “campo” di Hartmannsdorf, rassicura la moglie e chiede qualcosa da mangiare, dato il vitto molto scarso: “Sono trascorse le feste natalizie ed anche il Capodanno. Naturalmente molta nostalgia e molto pensiero sul come le avete trascorse voi. L’anno delle sventure è finito: quello appena cominciato cosa ci riserverà? Forse riceverai un bollettino per la spedizione di un pacco. Vedete se potete mandarmi qualche cosa esclusivamente mangereccio”. Nel gennaio 1944 Antonio scrive altre lettere alla moglie, chiedendo quasi sempre l’invio di pacchi, precisando che “qualunque genere mi riuscirà utile qui al campo tutto riesce utile per gli scambi (…) in ogni camerata siamo in venti, la tua posta non è ancora giunta. Quanto la si attende!”.
Finalmente, il 6 febbraio 1944, Antonio riceve una cartolina della moglie e risponde: “Carissima Rina, sono stato fra i pochi fortunati che hanno ricevuto posta. Il 4 ho ricevuto la tua cartolina del 12/1, che sorpresa! Avevo un brutto presentimento!”. La posta è l’unica luce nel buio della prigionia e continua a mancare e il 20 febbraio 1944 scrive: “Sono ancora esasperato per la mancata ricezione della posta. Soltanto la tua cartolina (…) Incominciano ad arrivare anche i pacchi. Da qualche giorno ho cambiato genere di lavoro, sempre dalle 5,30 alle 16”. Passano i giorni e il 28 febbraio Antonio riceve dai familiari un pacco viveri, intatto e graditissimo, ma non potrà usufruirne al meglio poiché nel frattempo non avrà “la possibilità di cucinare perché non ci danno più il carbone (…) la parola d’ordine è resistere e sopportare”.
Nei giorni successivi si rallegra poiché, finalmente, riceve tre lettere dai familiari. Inoltre, informa che la sua compagnia è internazionale, come specifica nella lettera del 27 aprile: “Il mio reparto dove lavoro l’ho definito ‘la società delle Nazioni’. Oltre a me c’è un belga, un francese, un russo e un tedesco (il capo). (…) In tre abbiamo fondato una ‘Società del mutuo soccorso’; condividiamo gioie e dolori. Ognuno ha le sue mansioni; io la più importante: economo e cuoco”. Passata Pasqua, il 10 aprile scrive: “Anche il cappellano per la celebrazione della messa non è venuto! In sette mesi non abbiamo mai avuto la fortuna d’avere una visita di qualcuno che ci portasse un poco di conforto, anche solo con una buona parola”.
Intanto il tempo scorre lento e tribolato: “I giorni sono tutti uguali, sempre chiusi fra i reticolati. Le novità sono sempre cattive: mi hanno cambiato di nuovo lavoro, mi hanno rimesso al tornio. Significa lavorare una settimana di giorno e l’altra di notte; fare 12 ore in piedi”. Ma anche tra i reticolati qualche notizia arriva. In una lettera del 21 agosto 1944, Antonio scrive: “Ho sentito che Bergamo e dintorni sono stati bombardati”. Infatti, il 6 luglio 1944 le forze alleate avevano scaricato su Dalmine, paese vicino a Bergamo, sede di un’acciaieria, 77 tonnellate di bombe che causarono 278 morti e circa 800 feriti. Gli giunge anche notizia dell’apparizione della Madonna a Ghiaie di Bonate (Bergamo): “Qui arriva posta dalle province di Bergamo, Brescia e Milano che parla sempre delle apparizioni alle Ghiaie di Bonate e sentiamo il bollettino di radio Lipsia alle 19 in italiano”. Antonio è sempre attento ad ogni notizia proveniente dall’Italia. Egli è pure attento a “radio scarpa”. In una lettera del 24 luglio 1944 scrive: “Nell’incontro recente fra il Duce e il Fuhrer sembra si abbia parlato ancora della nostra situazione.
Sarà favorevole? Ti risulta che qualcuno sia stato rimpatriato per riprendere il suo posto di lavoro? A me no! Pare che saremo considerati internati civili. Avremo più libertà. Qui abbiamo tutti accettato questa posizione. Vedremo. Chissà che stavolta l’abbia indovinata. Ora dovrò guadagnarmi la vita in qualità di operaio, ed è dura!”. Infatti, nell’ultimo incontro (Rastemburg, 20 luglio 1944) Mussolini chiese a Hitler di fermare l’avanzata degli alleati sugli Appennini (senza esito) e di risolvere la questione degli Internati Militari Italiani in Germania, mitigando le loro condizioni di vita e convertendoli in “lavoratori civili”. Ciò non risulta nella totalità dei casi, ma per Antonio Zucchelli sembra proprio che ciò sia avvenuto. Comunque, agli ex-Imi non fu concesso di rientrare in Italia e nella sostanza poco cambiò. I prigionieri, abbandonati a sé stessi, sono all’oscuro di quanto succede in Italia: “dimissioni” di Mussolini, l’incarico a Badoglio, la fuga verso Brindisi.
Antonio il 4 settembre 1944 scrive dal lager di Reitdahngelange III: “Ecco la mia 1ª cartolina da civile (…) La situazione nostra è un po’ migliorata, anche per quanto riguarda il vitto. Anche per la disciplina. Godiamo pure di una certa libertà. Il lavoro è sempre lo stesso. La tua posta non arriva più”. In data 1º ottobre 1944 scrive una cartolina in franchigia dal nuovo campo, da Kaliverk Georgi: “Finalmente ho ricevuto la tua cartolina del 17/8. Sono tornato tranquillo. Tutto da fare, da sistemare nella nuova fabbrica, a 400 metri sotto terra”. Si succedono le cartoline postali, in quella del 10 ottobre 1944 scrive: “Che baraonda in attesa della sistemazione! Le 12 ore di lavoro, che diventano 13 per uscire e scendere nel pozzo, mi lasciano soltanto il tempo per mangiare e dormire”. Poi altre cartoline fino al 3 novembre 1944: “Ieri anche qui è caduta qualche bomba. Mi trovo nella zona di Lipsia, a 70 km”. Antonio continua a spedire cartoline in franchigia ogni tre o quattro giorni per informare i suoi familiari anche se in camerata non ha delle “comodità per scrivere, né tavolo, né sgabello, né spazio”.
A novembre comunica: “Qui più volte al giorno c’è l’allarme, come passano gli aerei. Io mi sento al sicuro, se mi trovo al lavoro sono in galleria. A mezzogiorno c’è il rancio, sia al lavoro o in baracca. Alla sera invece abbiamo viveri a secco, ossia pane con companatico che consiste in burro o margarina, salame (si chiama così), formaggio (si chiama così), marmellata e zucchero. Le quantità rispettive ritengo opportuno non precisarle. La ditta naturalmente ci fa le trattenute sulla paga per le sue prestazioni. Il mese scorso ho guadagnato 100 marchi circa in 26 giorni – 42 marchi di trattenuta per il vitto, 15 per altre trattenute e il resto in contanti che però non si sa come spenderli perché oltre alla cosiddetta “birra” non c’è altro. Come retribuzione siamo pareggiati ai camerati tedeschi”. A dicembre 1944 i prigionieri sentono voci di un loro trasloco e Antonio scrive: “Ci è venuto a piacere Wansleben. Si preferisce sempre il certo all’incerto! La nuova destinazione pare verso ovest”. A Natale 1944 scrive ancora da lì: “Natale con i tuoi… Purtroppo non è possibile trascorrerlo con voi neanche quest’anno!”.
Ma il 9 gennaio 1945 c’è il trasferimento a Lipsia, al lavoro presso la ditta Pittler, e qui trova un “ex collega ed amico di Vercelli col quale sono riuscito ad installarmi nella stessa camerata”. Qualche giorno dopo precisa: “Sono stato assegnato ad una macchina sconosciuta, la fresa. Il lavoro è pesante. Si fanno 12 ore, giorno e notte, e qualche volta anche la domenica”. Dopo il periodo di adattamento a fine mese scrive: “Il morale mi si è rialzato molto, sia perché mi sono ambientato, sia perché corrono delle buone notizie”. All’inizio di febbraio la salute di Antonio è buona, ma non per tutti: “Non è così per il mio amico Mario che da tempo soffre. Mi fa tanta pena! E deve lavorare! Non c’è che da sperare nella fine, perché altra soluzione, senza cure, è quasi impossibile”. Qualche giorno anche lui non sta bene, ma “la febbre non è sufficiente (occorre 38) per giustificare il riposo dal lavoro, che mi pesa sempre; figurati in cattive condizioni di salute!”. Ma va peggio per altri compagni di prigionia: “Quelli che erano andati al fronte a lavorare non sono più tornati e non si hanno notizie da nessuno. Come vedi, rispetto a quelli sono stato fortunato”. Ma la situazione bellica per la Germania volge al termine, in data 8 marzo 1945 scrive: “Se avanzassero ancora i russi dovremo sgomberare ed allora, zaino in spalla, bagagli alla mano e via. I bombardamenti vengono sempre intensificati”.
Peggiorano le condizioni di salute del suo amico ricoverato per sospetta tbc: “Questo fatto mi addolora molto e mi priva di un’amicizia cara. È del 1911, laureato in legge – di Orgiano (Vicenza) – impiegato alla Banca d’Italia a Milano”. L’ultima cartolina in franchigia porta la data del 2.4.45 da Gameinschaftslager Freiland Hallischestrasse Leipzig 26: “Sabato, vigilia di Pasqua, sono stato a Rochlitz a trovare gli amici. Secondo le loro impressioni la guerra dovrebbe durare poco. Magari! Io sono sempre pessimista, sia pure con molta fiducia”. Questa volta la fiducia si concretizza, infatti il Comitato internazionale della Croce Rossa, in data 22 giugno 1945, comunica alla famiglia che “Antonio Zucchelli è libero, è a Lipsia e sta bene”. La resa è firmata il 7 maggio a Reims tra la Germania e gli anglo-americani, ma, per volere di Stalin, viene sottoscritta una seconda resa a Berlino nella tarda sera dell’8 maggio (già il 9 maggio a Mosca), per cui l’anniversario della vittoria è datato 9 maggio. Alla fine della guerra sono 700mila gli Imi liberati in Germania e in Austria.
La maggior parte di essi ritornò in Patria tra maggio e settembre 1945. Alcune migliaia di prigionieri, nelle mani degli eserciti russo e jugoslavo, tornarono alcuni mesi dopo la fine della guerra. Le autorità sovietiche, in particolare, rilasciarono i prigionieri italiani solo a partire da settembre 1945. In quel mese ritornarono in Patria 10mila italiani, cui si aggiunsero altri 52mila nel mese di ottobre. Così finì la lunga via crucis dei prigionieri italiani.
Luigi Furia