Scritti… con la divisa

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    Il quaderno che sto sfogliando ci porta a Rodello, un grazioso paese di circa mille abitanti a sud di Alba, la capitale delle Langhe. Il diario è stato messo a disposizione da Teresio Manassero, avuto da parenti di Giuseppe Marchetti, reduce di Russia. Faceva parte di “una famiglia di agricoltori e di povera gente che lavorava la terra come mezzadri”. Giuseppe aveva altri tre fratelli chiamati alle armi prima di lui: Giovanni cl. 1908, 2° Alpini; Felice cl. 1913, 2° reggimento Genio telegrafisti; Mario cl. 1917, 4° reggimento artiglieria alpina.

    Si può dire che la sua naja sia iniziata a 18 anni, infatti a quell’età era obbligatorio frequentare il corso premilitare, ma fece in modo di evitarlo. Questo gli creò dei problemi quando si presentò alla visita di leva ad Alba. Chiamato alle armi il 13 marzo 1940, sperava che lo “avrebbero mandato a casa per la legge dei tre fratelli”, ma non fu così.

    Sul foglio matricolare che gli consegnarono lesse il motivo: “Non ammesso all’eventuale congedo anticipato perché, pur trovandosi nelle condizioni di cui all’art. 85 n. 2 del vigente testo unico delle leggi del reclutamento del Regio Esercito, manca dei requisiti premilitari”. Non avendo frequentato il premilitare, doveva fare il servizio militare. Così fu arruolato ed assegnato al 2° Alpini, battaglione Valle Stura, presso la caserma Cesare Battisti di Cuneo. Finito l’addestramento, il 9 giugno 1940, fu mandato sul confine con la Francia: “Qui eravamo di vedetta, giorno e notte, si facevano tre turni di due ore. Il bello è che abbiamo saputo di essere in guerra due giorni dopo, il 12 giugno, ma noi pensavamo che non fosse vero, tutto era calmo fino al 19 giugno. Ricordo bene questa data perché stavo scrivendo a casa, dicendo che tutto era calmo e tranquillo, quando sentii il fischio di granate sopra di noi e mi ha preso una grande fifa […] ero teso perché non avevo mai fatto la guerra e per la verità non avevo quasi mai sparato con un’arma militare. Quella notte, per me, fu molto lunga, anche se era una delle più corte dell’anno”. Il mattino dopo il sottotenente radunò il plotone e disse: “Verso le 8 scatta l’offensiva e quindi dobbiamo avanzare”.

    Varcato il confine fu un finimondo: scoppiare di granate, crepitare di mitragliatrici, imprecare di soldati. Giuseppe, che era di vedetta, fu preso da una grande fifa: “Ero in una posizione per niente sicura. ‘Che faccio – pensai tra di me – ora fanno l’offensiva, quindi non è più il caso di stare di vedetta a rischiare la pelle'”. Così andò a mettersi al sicuro sotto un roccione più in basso. Quando lo trovarono il suo comandante lo redarguì: “Tu sei una recluta ed io non voglio avere rimorsi sulla coscienza, ma sappi bene che se io facessi rapporto, dicendo che hai abbandonato il tuo posto di vedetta, tu vai sotto processo e rischi la fucilazione”. A fine luglio Giuseppe rimpatriò ed il 3 novembre fu trasferito a Farigliano.

    Pochi giorni dopo fu chiamato in fureria dal capitano: “C’è un telegramma, tua madre è in imminente pericolo di vita”. Pensò ad un sotterfugio, come capitava delle volte, non si preoccupò più di tanto, si prese un permesso di 24 ore, ma giunto a casa ebbe l’amara sorpresa: la mamma era grave e la sera del 12 dicembre 1940, dovendo rientrare, la salutò per l’ultima volta. Giunto in caserma trovò l’ordine di trasferirsi a Cuneo, assegnato al battaglione Saluzzo. Il 2 gennaio 1941, gli comunicarono che doveva partire per l’Albania quale conducente in una sezione di sanità. All’istante gli consegnarono l’equipaggiamento e andò a ritirare gli “automezzi”. Sul piazzale delle scuderie c’erano 38 muli requisiti ai borghesi in giornata.

    Dopo la consegna dei muli, il comandante, un capitano piuttosto anziano, presentò alla truppa gli altri ufficiali della compagnia: due tenenti medici, un sottotenente farmacista ed il cappellano. Si trattava della 309ª sezione di sanità alpina, composta da 160 uomini e 38 muli. Il superiore dei conducenti era un sergente con due campagne militari alle spalle, Etiopia e Francia, classe 1913. Passarono gennaio e febbraio 1941, la radio annunciava che in Grecia le cose andavano bene, ma non era così. Infatti a sorpresa giunse l’ordine di partire immediatamente, era il 27 febbraio 1941. Una lunga tradotta lasciò Savigliano e dopo 36 ore di viaggio giunse a Bari. Era il 3 marzo quando vennero imbarcati su una nave mercantile che portava nella stiva munizioni e sopra i soldati della “vaselina”, come era chiamata in gergo Mappa dell’offensiva italiana sul fronte francese. militare la sanità. Fu un viaggio movimentato, la maggioranza con il mal di mare fino allo sbarco a Durazzo alle cinque di sera. Il reparto partì subito in marcia per raggiungere il fronte, senza conoscere la precisa destinazione, dovevano unirsi al 9º Alpini della Julia.

    Dopo l’avventurosa marcia, il reparto arrivò a Tepeleni, un pianoro vicino alla Voiussa: “Ci siamo accampati ai piedi di una montagna. Abbiamo eretto due tende che fungevano da ospedale da campo. Eravamo molto tristi vedendo quei poveri soldati che venivano da noi trasportati con barelle. Erano mal conciati: chi mancava una gamba, chi un braccio, chi era cieco del tutto, cosa orribile a pensarci […] Noi eravamo fortunati perché la nostra sezione di sanità divisionale non operava in prima linea. I feriti venivano prelevati al comando di reggimento, che si trovava ad un paio di km dalla prima linea. Nel passare dei giorni noi conducenti eravamo soprattutto preoccupati per il mulo, ognuno di noi doveva governarselo, specialmente di notte, perché altri conducenti rimasti orfani del proprio mulo cercavano di rubarne un altro, chi risultava senza mulo era spedito in linea”. A metà aprile, era la Settimana Santa, arrivò l’ordine di avanzare. Sistemati i feriti sulle ambulanze, smontarono i tendoni e li caricarono sui muli e partirono.

    Nel contempo, il 23 aprile 1941, la guerra cessò. Verso i primi di giugno il reparto fu inviato a Konitza, un paesino in montagna: “Ci hanno affidato il compito di recuperare i morti della divisione Julia, caduti a Leftero e Sella Sant’Atanasio distanti una trentina di km. Qui ci hanno dato due casse per mulo, rivestite all’interno con un telone da basto, si partiva al mattino presto e si rientrava in serata il giorno dopo. Ogni mulo portava due, tre o anche quattro salme secondo lo stato di decomposizione. Molti di questi morti si trovavano all’aria aperta e non ci davano problemi, ma tanti erano avvolti in telo da tenda, e questi ultimi davano fastidio, si adoperava il cloro per la disinfestazione, ma l’effetto durava poco, anche i muli non ce la facevano più. Da lassù, portavano le salme a Konitza ove era stato preparato un cimitero di guerra. Questi viaggi si facevano a turni, durante i mesi di luglio e agosto. Fra noi si diceva che prima l’avevano scampata, ma che adesso la pelle la rischiamo qui o per il tifo o per il deperimento. Io alla fine pesavo solo 48 chili. I nostri ufficiali non venivano lassù con noi a godere il profumo dell’umanità, loro erano tutti medici, ma non veniva neanche il cappellano, che faceva una benedizione alla base. Le salme che trasportavamo erano messe lì come delle mele in un cesto, senza nessuno coperchio e giunti a Konitza si svuotavano. In tutto abbiamo recuperato 1200 cadaveri. Che sollievo quando abbiamo terminato questo brutto lavoro. Su questo avrei ancora tante cose da raccontare, ma anch’io preferisco dimenticare”.

    Finito questo calvario, ai primi di settembre, muli e soldati furono caricati su camion per essere portati a Nauplia, nel Peloponneso, per presidiare la zona. Giunse la fine di febbraio e poiché nei dintorni vi erano tanti caduti inglesi, toccò ancora a questo reparto il compito di raccoglierli e seppellirli. Nel frattempo giunse l’ordine di rimpatrio della Divisione Julia, ma il cappellano chiese un rinvio della partenza della 309ª sezione, dando la precedenza al 306° ospedale da campo. Al cappellano fu augurato un mucchio di accidenti, ma pochi giorni dopo giunse la notizia che la nave Galileo Galilei era stata silurata ed “erano finiti tutti mangiati dai pesci”.

    Fine prima parte