Scritti… con la divisa

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    La naja, in tempo di pace, ha rappresentato il “secondo” taglio del cordone ombelicale dei giovani ancora dipendenti dalla famiglia: dalla mamma che viziava con la colazione pronta ed il bottone già cucito, dal papà che spianava la strada per ogni cosa. Per questi, più degli altri, il servizio di leva è diventato nel tempo un momento di crescita individuale e collettiva, una vera e propria emancipazione, un sentirsi adulti ed indipendenti, come è giusto che sia. Ma lo sarebbe anche oggi, considerati i tanti “bamboccioni” in circolazione, se ci fosse ancora la leva obbligatoria.

    L’alpino Bruno, che abbiamo conosciuto nel numero scorso, sembra proprio ricordare alla mamma che ormai è “grande” e sa badare a sé stesso.

    Aosta, 11 febbraio 1957 – Carissima mamma, con questa tento di rispondere alle tue assillanti domande. Noto nelle tue lettere una certa apprensione, che penso sia caratteristica di tutte le mamme di questo mondo, un’ansia che mi lascia pensieroso e dentro di me mi domando se tu creda che io non sia felice qui, se mi manchi qualche cosa. Io credo sia assurdo pensare questo, ma per una mamma abituata a vedersi sempre in giro il proprio figlio, anche se discolo come ero io, forse è una cosa naturale. Sappi però che non è così per me.

    Ogni volta che rientro dalla libera uscita, mi sembra di vederti lì sulla porta ad attendermi, con quella faccia che vorrebbe essere severa, come quella di papà, ma che non ti è mai riuscito fare e così in ogni momento della mia giornata: quando mangio, quando vado a letto mi sembra tu sia lì vicina a rimboccarmi le coperte; al mattino la tua voce che dal cortile mi chiama è personificata dalla tromba, anche se questa è più prepotente; insomma ancora non mi accorgo che sono via da te e da tutti voi; mi pare di vivere in un sogno ed a volte mi domando, guardandomi allo specchio, se sia io proprio ad essere militare e non la mia fantasia.

    Tutto questo, però, è anche dato dalla tua vicinanza con le tue carissime lettere (e tu mi domandi se mi fanno piacere …), le leggo una, due, tre volte finché sono ben sicuro di averne capito tutto il significato di ogni minima notizia. […]

    Allora non era certo tempo di “bamboccioni”, Bruno è del 1935, e la maggioranza dei giovani ad una certa età salutavano la mamma: «Grazie mamma di avermi generato e coccolato, sorretto e protetto, ma ora sono grande e devo fare la mia strada. Sto per prendere il volo, lasciami volare!».

    La prima parte della lettera che termina con “ora quattro parole anche a papà”. E da qui pare che si faccia strada un rimprovero. Se le mamme erano premurose, a volte assillanti nelle attenzioni per figli, i papà erano asciutti e severi, quasi che manifestare affetto fosse cosa da femmine, ma così era il pensare di una volta dei maschi, presi dal lavoro e dalle difficoltà della vita del tempo.

    Mio caro papà, conoscendo la tua “fatica” nello scrivermi ti esonero dal farlo, ne ho a sufficienza che ogni tanto metta i saluti; sai, per sentirti sempre con me. Sono certo che quel tuo malessere sia dato dalla tensione nervosa causata dalla costruenda casa. Non capisci di prendertela meno in ogni cosa […] Ad ogni modo ricorda che la salute è una e persa quella tutto il resto conta zero. Io non me la prendo affatto […] In bocca al lupo.

    La naja era liberarsi dall’assillo della mamma, ma c’erano altre regole e altri vincoli, quelli della vita di caserma. Bisognava accettarli, sia pure brontolando. Così doveva fare anche Bruno per poi gustare meglio il bello della libera uscita sia pure con il brutto tempo.

    Aosta, 23 febbraio 1957 – Sono fuori! Finalmente rivedo il cielo di Aosta fuori dalle 4 mura che circondano la caserma. Era ora! C’è però un tempo pessimo, nevica e piove rendendo le strade dei torrenti impraticabili, ma non importa, l’importante è l’essere liberi. Non mi curo nemmeno di stare sotto le gronde dei tetti, cammino in mezzo alla strada, fra la meraviglia di qualche rado passante. Ma loro non possono capire, non sanno cosa vuol dire andare in libera uscita dopo 15 giorni di clausura, non sanno la felicità, la gioia che mi si sprigiona dal cuore. Se non fosse per finire “dentro” mi metterei a urlare ed a cantare eppure dovrei essere triste, sono lontano da voi, in mezzo a gente che non conosco […]; invece sono contento: come mai? Sono certo che è qualcosa di soprannaturale che mi dà una compagnia sicura, per mezzo della quale mi sento allegro e gioviale, anche nei momenti tristi.

    Ma, al dunque, la mamma è sempre la mamma… pure il papà… e se gli fanno anche visita!

    Aosta, 27 febbraio 1957 – Che sorpresa! Non ci credevo ai miei occhi, al punto da rimanere di stucco, senza parole. Non so cosa abbiate pensato, caro papà e mamma, nel vedermi rimanere così inebetito, ma se vi fosse stato possibile vedere nel fondo del mio cuore, avreste visto una felicità indescrivibile che mi dava un senso di smarrimento, in poche parole avevo perso la bussola.

    Per disgrazia quel […] maresciallo Moccia era di servizio e, siccome vuole passare maggiore, non sgarra così dai regolamenti, il capitano non era in caserma, ho dovuto rimanere in aula per 3 ore, figuratevi con quale risultato! Alle 5 mi faccio mettere a rapporto del capitano e gli chiedo il permesso per oggi fino a mezzanotte, per domani tutto il giorno, dalle 6 alle 24. Per il primo non fiata neanche e firma, ma per il secondo la storia è un po’ diversa. Comincia col dirmi che gli spiace farmi perdere 4 ore di lezione e che il permesso me lo potrà dare solo da mezzogiorno. A me insistere non piace e quindi esco così […] forse è il pensiero che siete fuori ad aspettarmi che non mi fa pensare al domani, la gioia che uscirò con voi mi mette le ali ai piedi, mi cambio in fretta ed eccomi a voi.

    Dopo giorni di lezione, chiusi in aula, arrivano di nuovo le montagne.

    La Thuile, 1 marzo 1957 – Come sia arrivato a La Thuile non lo so comunque ci sono […] Oggi era però dura da Pré Sant Didier a La Thuile con lo zaino sempre più pesante sule spalle. Per fortuna erano solo 9 km. e rotti. […] Qui siamo stati accolti nella caserma Monte Bianco. È bellina, ma è piccola, così dormiamo in castelli, 40 per camerata, non vi dico che casino. […] C’è un guaio che durerà per tutti questi giorni (17), il mangiare nella gavetta. Mi sono preso però una polvere, il Kop mi sembra che vada benissimo, ma la puzza non la toglie. Ci abitueremo anche a questo.

    Tra le montagne dimentica subito anche la puzza della gavetta e si sente ringalluzzito.

    La Thuile, 13 aprile 1957 – E chiamano marcia questa gita che abbiamo fatto oggi! Puah! Partenza alle 6; davanti a tutti il plotone sciatori di cui io facevo parte comandato direttamente dal Sig. Capitano. Ski in spalla fino a Les Suches […] sosta di mezz’ora circa per attendere gli altri plotoni indi via per il colle Fourchaz, quota 2613, con gli ski calzati e con pelli di foca. La giornata è splendida […] il Monte Bianco sulla nostra destra sembrava vicinissimo e così il Dente del Gigante e la Gran Jorasses. Finalmente il Sig. Capitano ci diede l’alt e ci fece levare le pelli di foca, si iniziava la discesa. Giù a rompicollo su una neve fantastica sino alle sbarre di confine del Piccolo S. Bernardo, dove potemmo fare colazione, ospitati dalla Guardia di Finanza.

    Luigi Furia