Scritti… con la divisa

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    Questa volta ci troviamo idealmente a Semonte, una frazione di Vertova (Bergamo), dove soggiornò per alcuni anni anche il grande alpinista e alpino Walter Bonatti. Qui, nel 1943, conobbe Dino Perolari, poi amico per la vita, che ricoprirà per decenni l’incarico di commissario tecnico delle attività sportive nazionali dell’Ana e della Sezione bergamasca. Ebbene in questo paese, nel 1919, nasce Gabriele Merelli da Giuseppe e Lucia Gualdi. Durante la Seconda guerra mondiale Gabriele, detto Bele – con i fratelli Santo (1922) e Flaminio (1924) – si trovava sotto le armi. Santo e Flaminio tornarono, mentre Gabriele venne dichiarato disperso in Russia. Ai familiari rimangono solo i suoi scritti. La corrispondenza di Gabriele ha inizio nell’aprile del 1940.

    Prato all’Isarco, 14.3.1940 – “Cari famigliari babbo! Mamma! Fratelli e sorelle, scusatemi se mi sono fatto desiderare un poco, spero mi avrete già perdonato ma nei giorni scorsi abbiamo avuto un gran lavoro e poi gli anziani non ci lasciavano fermi un solo minuto… con questa mia vi voglio descrivere un poco, così alla meglio, come è la naia specialmente qui con gli alpini. Dopo averci tenuto tutto il giorno in cortile ci diedero uno zaino, una coperta, due pagnotte, una scatoletta e una gavetta”. Descrive poi gli scherzi a cui sono sottoposte le reclute: “Compreso fare la branda, lavare la gavetta degli anziani, l’obolo serale ai veci di L. 1,50 per la loro libera uscita”.

    Settimo Vittone, 4.5.1940 – Dopo alcuni mesi viene mandato a Settimo Vittone, antico paese verso Aosta e scrive a casa: “Carissimi genitori fratelli e sorelle, come vi avevo avvertito sono stato mandato qua per fare un corso di rocciatori, il quale durerà un mese: 20 giorni scuola di roccia e poi 10 giorni andremo sul Monte Rosa a fare scuola di ghiaccio per poi tornare al nostro reggimento (…) siamo aggregati al 5º Alpini btg. Tirano. Ieri sera siamo stati equipaggiati di tutto il materiale alpinistico cioè piccozza, corde, ramponi, chiodi ed ora inizieremo le scalate, qua non si sta male, il rancio è un po’ più buono di dove ero prima. Il viaggio è stato pessimo, siamo partiti da Prato all’Isarco il primo maggio, la sera alle 7 e due ore prima avevamo preso la puntura, ci siamo fermati due ore a Bolzano, 4 ore a Trento e poi Trento Milano diretta e ci siamo arrivati alle 7 di giovedì, qua dovevamo aspettare 4 ore, io allora sono uscito alla stazione e sono andato col tram alla portineria della De Angeli e sono andato a trovare la signora Tonelli, la quale mi ha visto molto volentieri e mi ha dato anche da mangiare”. La De Angeli-Frua era un’azienda tessile, nata nel 1896 a Milano, che aveva uno stabilimento a Ponte Nossa (Bergamo), dove lavorava prima della chiamata alle armi, il nostro Bele. Poi continua: “Siamo partiti da Milano a mezzogiorno e siamo arrivati al nostro comando a Bollengo, dove vi è il nostro reggimento, alle 6 di giovedì sera”. Da qui parte per Settimo Vittone per il corso roccia, dove non ci sono caserme, infatti sono alloggiati in una casa privata: “Siamo in casa di borghesi noi sei del nostro reggimento, siamo qua in una casetta ed abbiamo a nostra disposizione una stanza noi soli (…) il vaglia mandatemelo in questa casa dove sono”. Ebbene, i casi della vita, pare proprio che in questa casa sia sbocciato un amore. Ci scrive infatti il nipote Gabriele: “Mio padre Santo e mio zio Flaminio tornano. Episodio toccante e consolatorio a cui io ho partecipato, l’incontro con la famiglia di Costigliole d’Asti che aveva ospitato mio zio Gabriele prima della sua partenza con la divisione Tridentina per la Russia. Questo anche grazie ad una “simpatia” con la figlia dei Baldi, conosciutisi appunto prima della partenza per la Russia. Purtroppo anche questa ragazza muore di malattia proprio durante la guerra. Ho assistito all’incontro tra mio nonno e il signor Baldi nel ricordo dei rispettivi figli scomparsi”. Tornando al 1940, gli eventi bellici incalzano. La Germania attacca la Francia, l’Italia si accoda il 10 giugno. Così anche 39 1-2023 Gabriele viene inviato sul fronte francese. Dopo l’armistizio con la Francia, firmato il 24 giugno ed entrato in vigore il giorno successivo, il nostro alpino si fa vivo.

    Courmayeur, 4.7.1940 – “Non ho mai potuto darvi mie notizie dal fronte dove ci sono andato il 19 e sono tornato due giorni dopo l’armistizio, là abbiamo passato proprio momenti critici sul serio ed ora comprendo bene che a fare il soldato in tempo di pace non è una brutta cosa. Vi racconterò in breve come l’ho passata lassù a 3.000 metri. Ci siamo andati il 19 di sera ed abbiamo continuato il cammino fino alle 1,30 di notte, qui a circa metà strada abbiamo riposato così a ciel sereno, ma quando alle 4 ci svegliarono eravamo tutti bagnati per l’acqua che durante queste poche ore era caduta, ci si mise in cammino di nuovo e mentre si saliva si incontravano barelle di feriti e qualche morto, non potete immaginare quale peso cadde sulle nostre spalle vedendo questo e ci mancava la forza di andare avanti, ma mentre si saliva più ci si impressionava sentendo sempre più vicini gli spari, ma non vorrei raccontarvi altro perché sarei sicuro che la mamma soffrirebbe”. Tornato dalla Francia si ferma ancora in Valle d’Aosta, attendato in Valdigne nella parte superiore della vallata tra La Salle e Courmayeur, ma ormai soffiano solo venti di guerra. Scrive: “Tutti abbiamo una grande paura della guerra, ormai ora si va in guerra e si ha paura di non tornare (…) come già sapete mi trovo a riposo. Peccato che ci tocca dormire ancora sulla nuda terra, che con questa continua pioggia diventa fango”. Rientra poi in caserma, questa volta a Costigliole e apprende che suo fratello Santo è stato chiamato alle armi.

    Costigliole Saluzzo, 24.1.1942 – “Carissima mamma e babbo, mi sento in dovere in questi giorni di mandarvi due parole di conforto se almeno vi potranno bastare. La partenza di Santì sarà per voi un’altra prova e vi lascerà certamente in grande pena, pena che forse mai nessuno saprà comprendere, immagino in quale stato d’animo vi trovate e se posso essere d’aiuto con queste mie povere parole ne sarò molto contento. Mamma cara specialmente a te mi raccomando, sii forte e se lo scoraggiamento ti assale, pensa a tante mamme ancora più provate di te. Fa a Santì le tue raccomandazioni di mamma. Dagli la tua benedizione con tanti auguri e vedrai che un giorno torneremo tutti e due a riabbracciarti (…) quindi cara mamma coraggio che qualcuno terrà conto di questo tuo nuovo sacrificio”. Dopo aver fatto coraggio anche al papà, aggiunge: “A te Santì faccio di nuovo i miei auguri sperando di poterti vedere presto, non farti paura e pensa che tuo fratello ne ha passate di più brutte che a te non auguro nemmeno di vedere da lontano”.

    P.M. 201, 17.7.1942 – “La mia partenza è domenica, cioè dopo domani, voglio anche dirvi che i soldi che mi son preso da casa non mi sono bastati; perché ho dovuto versare 152 lire per avere 20 marchi tedeschi da adoperare nei giorni che rimarremo in territorio tedesco. Quando riceverete questa mia sarò già in viaggio, ma non pensate male, e soprattutto non scoraggiatevi: anche perché il piangere non può portarvi nessun sollievo, quindi coraggio, finirà anche questa. Cara mamma, specialmente a te mi rivolgo, abbi pazienza e confida in colui che ogni dolore vede anche i più nascosti (…) non devi fare come domenica quando sono partito che mi hai fatto stare male, ma devi innalzare il tuo sguardo al creatore. Sii forte mamma ed attendi con serenità migliori giorni. Vi saluto tutti caramente e vi abbraccio. Bele”.

    Zona d’Operazione, 1.9.1942 – “La cartolina della madonna d’Erbia non l’ho ancora ricevuta (…) immagino che bella passeggiata sarà stata, mai però come le mie di ogni notte, le quali si aggirano sempre sui 30 km. Vedeste come è bello camminare sotto il chiaro di luna della Russia con lo zaino, si arriva al mattino che non si ha più voglia di fare degli scherzi inutili, sempre in gamba però questi bravi alpini anche quando vi sono le sfiacche (vesciche, n.d.r.) sotto i piedi; allora c’è la coda del fedele amico quadrupede”.

    P.M. 201, 2.10.1942 – Scrive dal fronte russo: “Carissimi, qui giunse la vostra cara lettera dalla quale apprendo della vostra ottima salute, come pure vi posso assicurare di me, con la vostra mi giunse pure la cartolina di Colomba, alla quale dico di non prendere in giro con quel raduno perché quello non sarà l’ultimo, verrà quel giorno che anch’io potrò partecipare a questi; non solamente a Ulzio ma addirittura a Roma, allora anche la signorina Colomba guarderà con quattro occhi questi bravi scarponi. Se ora sono qua in Russia non è mica detto che non possa più tornare. Sono qua nella zona dei Cosacchi del Volga e questi cosacchi sono della buona gente”. Il pensiero di tornare è un assillo quotidiano e si fa strada la preghiera: “Ora cara mamma ho una bella notizia da darti. L’altro giorno venne in mezzo a noi il cappellano il quale ci parlò di varie cose e ci disse pure che il mese di ottobre è il mese del S. Rosario, ci esortò a recitarlo tutte le sere, perché la Madonna ci dia la grazia di tornare in mezzo ai nostri cari, ed infatti ieri sera dopo quel poco di rancio, mentre calavano le tenebre, chiamo i miei compagni e con mia consolazione vennero tutti 14 e lì recitammo per la prima volta il S. Rosario, promettendoci che se il tempo lo permetterà faremo così tutte le sere. Cara mamma non puoi immaginare come era bello, procurammo tutto il necessario: la coroncina e il libretto dei misteri”. Ma Bele non tornò. Il terzo fratello, Flaminio, chiamato alle armi pure lui, fu fatto prigioniero dagli inglesi e deportato nel campo di Perthshire, cittadina della Scozia. Parte dei soldati italiani, circa 1.300, catturati sui fronti africani tra 1941 e 1943, furono trasferiti nella madrepatria britannica, ritenendoli non pericolosi per quanto riguardava la sicurezza interna e da un punto di vista politico, ma adatti a rimpiazzare la manodopera autoctona nelle tenute agricole britanniche. Una prigionia, da un punto vista strettamente materiale, da ritenersi al tempo “buona”. Condizione che non venne modificata neppure dall’armistizio del settembre 1943, dalla successiva cobelligeranza e addirittura dalla fine della guerra. Dimenticati dalle autorità italiane postfasciste, i soldati furono trattenuti in prigionia fino al 1946 e oltre, solo allora cominciarono a rientrare in Patria. Altri prigionieri italiani, circa 23mila, finirono nei campi di prigionia in Oceania tra il 1940 e il 1945, non soltanto soldati, ma anche civili arrivati pochi anni prima per cercare fortuna. Un fatto rimasto quasi sconosciuto per più di settant’anni. I militari prigionieri in Australia avevano sveglia all’alba, luci spente alle 22, marcia per tre volte al giorno e appello militare due volte al dì. I luoghi di detenzione erano divisi per nazionalità: i civili erano chiamati internati, i militari prigionieri di guerra. Sembra una differenza da poco ma non lo è. Il soldato rientrava nelle specifiche disposizioni della convenzione di Ginevra del 1929 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra. Tranne sporadici casi non ci sono stati maltrattamenti e c’era da mangiare. Si poteva ricevere una corrispondenza seppur passata al vaglio della censura; erano abbastanza liberi di fare quello che volevano all’interno del campo. Per tutti, all’esterno, vigeva il divieto di fraternizzare con gli australiani, ma venivano mandati a lavorare dagli agricoltori nelle fattorie, nei posti più remoti, o a fare lavori stradali, linee ferroviarie o altro. Non era certo un clima ideale: quaranta gradi all’ombra. Anche per questi la prigionia non cessò con l’8 settembre del 1943. A differenza di quanto si potrebbe pensare, nonostante l’armistizio, né civili né soldati furono immediatamente rilasciati. Nella maggior parte dei casi, la prigionia durò per altri due o tre anni. Come capitò anche a Flaminio. Alla fine, anche questi prigionieri tornarono a casa, tranne pochi che decisero di fermarsi nel continente dall’altra parte del mondo. La guerra era finita, ma alcuni nell’arsa terra australe avevano trovato il lavoro e pure l’amore.

    Luigi Furia