Riccardo Cassin, uomo simbolo della montagna

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    di Umberto Pelazza

    In fondo alla Val Bondasca c'è una bella parete di granito alta un novecento metri: sembra fatta apposta per te’. Riccardo Cassin sorride: aveva colpito anche lui quel lastrone verticale sul versante svizzero del Piz Badile che aveva visto dalla corriera di Saint Moritz. ‘Parecchi ci han girato intorno, qualcuno ha provato anche a salire, ma poi ha rinunciato’, prosegue l'amico.
    È quanto ci vuole perché provi quel fremito che ben conosce e che finora non l'ha mai tradito. Ma ha la netta sensazione che stavolta dovrà superare se stesso. Friulano, emigrato a Lecco diciassettenne per lavoro, dai giorni del primo approccio con le guglie della Grignetta, colpevoli di averlo distolto da una promettente carriera pugilistica, era passata una decina d'anni: le sue esperienze si erano estese alle torri dolomitiche, intercalate da qualche scappata sulle Occidentali, dove si era perfezionato in ghiaccio, sfruttando ogni momento libero dal lavoro in officina e programmando le sue uscite secondo le possibilità economiche. Sorretto da un'eccezionale robustezza fisica, aveva già al suo attivo alcune vie nuove in Grigna e impegnative spedizioni sulle Cime di Lavaredo.

    Nel 1935, sulla Comici Benedetti della Civetta, aveva avuto il battesimo del volo, precipitando per una ventina di metri e cozzando violentemente contro la roccia: il vistoso bernoccolo non gli aveva impedito di concludere l'ascensione. Nell'agosto dello stesso anno, insieme a Vittorio Ratti, aveva portato a termine in tre giorni la prima assoluta allo spigolo sud est della Torre Trieste, rientrando appena in tempo per non lasciarsi sfuggire la Nord della Cima est di Lavaredo: seicento metri di muraglia verticale vinti dopo 54 ore di lotta nella bufera (sette delle quali per superare i 25 metri più scabrosi), battendo sul tempo i tedeschi Hintermayer e Meindi.
    Ora è la volta del Piz Badile. Cassin, Ratti e Gino Esposito effettuano una prima ricognizione dal rifugio Sciora in Val Bregaglia, dove prendono contatto con la concorrenza, rappresentata dagli amici di Como Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi, dai quali ricevono utili indicazioni. Ci ritornano il 12 luglio e si trovano in compagnia di un cliente… non registrato, il diabolico caprone Gigiàt, che le tenebre trasformano nell'inesorabile demolitore del deposito frigorifero esterno al rifugio, invano protetto con pesanti massi. 14 luglio 1937.

    Sveglia alle due: il tempo è incerto. Partono per primi Molteni e Valsecchi. Gigiàt, preso in contropiede, attende che il campo sia sgombro per lavorare in pace: dalle rovine del fortino espugnato esce anche stavolta trionfante e satollo.
    Dopo un'ora di arrampicata i comaschi vengono superati sulla sinistra dai lecchesi, ma li raggiungono verso sera nei pressi del bivacco e il mattino dopo, a sorpresa, propongono di costituire un gruppo unico. Cassin è perplesso: una cordata a cinque crea problemi di movimento; inoltre si è reso conto che i due non sono nelle migliori condizioni di forma, ma non se la sente di rifiutare. Tutto procede regolarmente fino a quando, durante un passaggio difficile, con un rombo improvviso seguito da un sibilo acuto, un masso enorme precipita dall'alto come un proiettile: Cassin intuisce la traiettoria, grida a Esposito ‘Tieni!’, afferra la corda e si butta nel vuoto: il macigno piomba sul ciglio lasciato libero, esplode a shrapnel e continua la sua corsa: una scheggia sventra il sacco di Molteni e viveri e indumenti si perdono nel baratro.

    L'andatura rallenta. Al secondo bivacco si scatena un furioso temporale, con tuoni, fulmini, scrosci di pioggia, grandine e scariche di sassi. L'oscurità è fitta e tutti s'inzuppano fino al midollo. Molteni e Valsecchi, privi di indumenti pesanti, sono colpiti da violenti brividi: accettano di buon grado cognac e biscotti, mentre Esposito, tra il brontolio dei tuoni, tenta di rincuorarli intonando una canzoncina, alla quale si sforzano di rispondere in sordina. I vestiti si sono irrigiditi come cartone e Cassin ringrazia il panno di lana spesso e robusto delle mantelle dei Reali Carabinieri, col quale ha fatto confezionare i suoi. Ancorato alla roccia calza scarponi e ramponi (‘Mille volte benedetti’ dirà in seguito se non li avessi avuti, nessuno sarebbe uscito vivo’).

    La parola d'ordine è ‘Proseguire a tutti i costi’: se si fermassero sarebbe la fine. Il gruppo riprende il cammino ma i due lariani, duramente provati, stanno dando fondo alle ultime energie: procedono come automi, quasi spostati di peso. Alle quattro pomeridiane del 16 luglio, tra turbini di vento e vortici di neve, Cassin pone per primo il piede sulla vetta, seguito lentamente dai suoi compagni, ma la conquista non provoca particolari emozioni e non migliora la situazione, anche perchè si scatena un vero uragano: l'aria è satura di elettricità, i capelli si drizzano sotto il passamontagna e il materiale ferroso dev'essere stipato nel sacco. La visibilità non giunge alla punta degli scarponi e soltanto una disperata ricerca porta finalmente al canalino della discesa. Molteni è il primo a crollare: Cassin lo stringe a sé, come per trasmettergli ancora un soffio di vita, ma se lo vede spirare tra le braccia. Allora, rabbiosamente, con un sublime gesto di ribellione, se lo carica sulle spalle e riparte verso un impossibile traguardo di salvezza: Esposito lo convince a desistere. Valsecchi, rannicchiato contro una roccia e semisepolto dalla neve, intuisce quanto è accaduto e le sue lacrime sono assorbite dalla maschera di ghiaccio che gli ricopre il volto. Cade in uno stato d'incoscienza: lo scuotono, ma inutilmente. Piega la testa ed esala l'ultimo respiro.

    La bufera si placa durante la notte dell'ultimo bivacco, ma nessuno riesce a prendere sonno. Al mattino, sotto un cielo beffardamente limpido, i superstiti riprendono la discesa, trasportando la salma fino all'inizio del sentiero. Dopo 52 ore di parete e dodici di tormenta, si avviano silenziosi verso il rifugio: ritorneranno il giorno dopo con la squadra di soccorso a riprendere i corpi degli amici.
    Un anno dopo. Nella poco nota catena del Monte Bianco (‘Per le Grandes Jorasses, da che parte si va?’), lo sperone nord della Punta Walker (m. 4206) è l'ultimo appuntamento con la grande montagna prima che il mondo si avvii verso il baratro della guerra. Per la terza volta la furia della natura si scatena sulla cordata (dove Ugo Tizzoni ha sostituito Ratti, già in divisa), che attacca dal versante francese alle prime ore del 4 agosto 1938. Il preludio viene offerto in tarda serata da una spettacolare coreografia di lampi e scariche elettriche che anticipano la fitta grandinata del mattino dopo: la vetta è raggiunta alle quindici, in piena bufera. L'ultimo bivacco, racconta Cassin, avviene in piedi ‘con le mani intrecciate sulle spalle dei compagni, il sacco tenda infilato sopra il capo, i piedi che ne trattengono i lembi, per impedire che l'uragano lo strappi di sotto’. La notte è lunghissima, il freddo è terribile, ma la felicità sprizza a bagliori gelati da tutti i pori.

    Sono ancora ignari di aver conseguito una delle più grandi vittorie dell' alpinismo italiano: con quattro imprese super in soli tre anni, il capo cordata Riccardo Cassin ha toccato il limite estremo delle possibilità fisiche e psichiche umane e si colloca fra i massimi esponenti dell'alpinismo del secolo.
    Scoppia la guerra: esonerato dal servizio militare perchè occupato in una fabbrica di produzione bellica, dopo l'armistizio del 1943 lo troviamo nelle formazioni partigiane alla testa dei ‘Rocciatori della Brigata Lecco’. Davanti a lui, di ritorno da una missione con un compagno, si misero un giorno sull'attenti i militi di una pattuglia tedesca, quando lo videro decorato della meda
    glia d'Oro al valore atletico conferitagli da Mussolini. Partecipò alla battaglia finale del 26 aprile '45, durante la quale lui fu ferito e Vittorio Ratti perse la vita. Deposte le armi, ritorna in montagna.

    È nel pieno della vigoria fisica e nulla ha perso della sua tempra di combattente, ma una cima lontana, il K2, sta per investirlo nel suo cono d'ombra. Con una decisione ‘amara e sleale’, viene escluso dalla spedizione, ufficialmente perché ‘non idoneo agli sforzi dell'altitudine’ e subisce la delusione più cocente del sua vita, pagando il prezzo della notorietà. Risponde negli anni successivi guidando in Himalaya la vittoriosa spedizione del CAI al Gasherbrum IV e vincendo in Alaska l'inviolata parete sud del Mckinley il tetto del Nordamerica (m. 6.178), che gli vale un telegramma di congratulazioni del presidente Kennedy. A sessant'anni, alla faccia dei medici del K2, scala l'imponente parete di ghiaccio del Jirishanca (metri 6.126), il Cervino delle Ande.

    Nel 1987, dimentico dell'anagrafe che lo vuole settantottenne, ritorna sul Piz Badile a cinquant'anni dalla ‘prima’ (e si ripete alcuni giorni dopo a beneficio della TV svizzera). Totale: 2.500 scalate, in roccia, ghiaccio e misto: più di cento in prima assoluta. Può ben dare il suo nome all'anno della montagna.