Quel mio cappello alpino

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    A pensarci bene solo oggi mi rendo veramente conto che quel mio grande amore per la montagna, quel desiderio di vivere appena possibile, anche se per breve tempo, tra i suoi grandi silenzi che paiono a volte infinite pause di esistenza dove la parola preferisce lasciare il passo ai fatti, quella tenace aspirazione di riuscire un giorno a scalarne le diritte pareti sino a raggiungere le loro vette, mi erano sorti sin da bambino, quando vivevo con mia madre, allora maestra elementare, in quei villaggi o piccoli gruppi di case persi fra i monti e i boschi dell’Appennino tosco-romagnolo, per raggiungere i quali ci voleva qualche ora di buon cammino montanaro e dove d’inverno la neve era tanto abbondante, che spesso per qualche giorno non si poteva uscire di casa.

     

    Ho abitato allora in questi luoghi dove la gente è semplice e buona, si tende la mano, ama le cose che il buon Dio ci ha donato e di quanto ricevuto si accontenta; dove ci si addolora e ci si dispera oltre che per le proprie anche per le altrui disavventure, ma si sa anche partecipare con gli altri, e con amorevolezza, ai momenti lieti che la vita ci offre. Mi piaceva allora andare con i piccoli compagni, ma a volte anche da solo, per il bosco e fermarmi poi su un grande spiazzo da dove si dominava la valle e qui dare libero sfogo alla mia fantasia ed ai tanti innocenti sogni, cercare di figurarmi cosa vi fosse al di là di quei monti che allora segnavano i confini del mio mondo infantile.

    E quando, a 12 anni, i casi della vita mi hanno portato ad abitare nella grande città di Milano, ho sempre sentito grande nostalgia di quei luoghi e, per sostituirli in qualche modo, ho cominciato a percorrere assiduamente con mio padre le montagne della Grigna, tanto che all’età di 16 anni sotto la guida esperta ed affettuosa di Boga e Cassin, due grandi alpinisti di quel tempo, avevo già scalato montagne come il Costanza, il Fungo e tante, tante altre ancora. Forse anche per questo, raggiunta l’età giusta per il servizio militare, ho fatto di tutto per farmi assegnare al Corpo degli Alpini, per poter imparare anch’io a portare “il peso dello zaino affardellato”, camminare e dimenticare il mondo, faticare e sudare su quei sentieri sassosi, fatti spesso solo di pietre frantumate dal tempo, che ripidi si arrampicavano per le nostre montagne, tanto che a volte sembravano finire nel cielo, ma orgoglioso poi di averli superati ed essermi guadagnato così quel cappello con la lunga penna nera, che anche oggi da borghesi tutti noi mettiamo in testa alle Adunate.

    Cappello che tutti noi abbiamo sempre tenuto sul cuore perché, come ebbe a dire l’allora cardinale di Milano, Montini, divenuto poi il pontefice Paolo VI, quel nostro periodo di servizio militare, una parte del quale purtroppo vissuto in guerra lontano dalle nostre montagne, non era stato solo un esercizio d’armi ma soprattutto una alta Scuola di quella “Virtù Montanara”, di quella fratellanza e di quell’altruismo che ci avrebbero poi accompagnato per tutta la vita. Ora che, per i molti anni contati, la giovinezza è diventata per tanti di noi un lontano e malinconico ricordo e più manifesti si sono fatti sia nel fisico che nel pensiero i segni del tempo e si ritorna spesso al passato – con quella nostalgia che fa rimpiangere oltre ai momenti lieti anche quelli più dolorosi per la perdita di tanti compagni con i quali si erano divisi fatiche, speranze, sogni – ci resta la fierezza di aver portato sempre con onore il cappello alpino e la convinzione di non avere mai, in alcun momento, sciupato la vita.

    Quel cappello che : “…è il tuo sudore che l’ha bagnato, sono le lacrime che gli occhi piangevano … e tu dicevi: “Nebbia schifa!” e che oggi vediamo in capo ai più giovani che lo portano con lo stesso rispetto e l’eguale orgoglio nostro e di quei fratelli che abbiamo lasciato con dolore sui monti della Grecia, del Montenegro o nella desolata steppa russa. Ecco, questo ci fa ben sperare in un domani migliore, perché pensiamo che quella di oggi sia in gran parte “Una bella gioventù che sente il bisogno della nostra guida, del nostro esempio, della nostra storia e non vuole essere lasciata sola”.

    Prendiamola allora per mano, certi che una più approfondita conoscenza delle sofferenze da noi sopportate saprà loro meglio indicare quali siano le vere vie della pace e della fratellanza e rendere più saldo quel vincolo d’amore che dovrebbe unire tutti gli uomini. Un giorno che mi sono venuti a trovare una diecina di giovanissimi alpini, ho posto accanto al mio cappello ormai logorato dagli anni quello loro, ancora nuovo e senza una grinza e per un momento mi è parso che il vecchio raccontasse al più giovane la sua storia fatta di dolore, di pietà, di perdono ma anche di eroismo, di umiltà, di grande orgoglio e quello lo ascoltasse rapito con il grande desiderio e la speranza di poter riuscire a seguire nel tempo, nel migliore dei modi e in un mondo di pace, il suo esempio e quanto lui andava raccontando con voce stanca ma sempre piena di giovanile ardore.

    Nelson Cenci
    s.ten. btg. Vestone – 6° Alpini, M.A.V.M.

    Pubblicato sul numero di maggio 2011 de L’Alpino.