Pane al pane…

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    Caro direttore, con questa mia intendo difendere la nostra lingua bella, dolce, armoniosa, quella che imparammo a scuola, quella lanciata da Dante e perfezionata da Manzoni che oggi vediamo bistrattata e mortificata da un diluvio di espressioni forestiere inutili e a volte incomprensibili. La parte del leone la fa l’inglese entrato prepotentemente nel linguaggio quotidiano attraverso la stampa e le tv imposto da giornalisti e da politici: i primi credendo di rendere più elevati i loro scritti, i secondi per cercare di far passare – in modo subdolo – decisioni non del tutto gradevoli per il cittadino, con espressioni estranee alla nostra lingua e di difficile comprensione come lo è già di per sé il linguaggio burocratico. In questo mare di parole scorbutiche c’è solo l’imbarazzo della scelta: passi per “sport” ormai intraducibile e irrinunciabile, accettiamo a fatica premier, leadership, tilt, navigator, testimonial (ma ci vuole un bel fegato!), respingiamo election day e question time, due mostriciattoli che tanto piacciono ai pennivendoli esterofili e veniamo a noi. Che bisogno c’era di scrivere spending review quando si poteva dire “Revisione della spesa pubblica”? E che dire di recovery fund al posto del più chiaro e nostrano “Fondo di ricupero”? Forse i nostri amministratori al massimo livello temevano una sollevazione popolare se si fossero espressi in puro italiano? Ma non è finita: tolgo dal cilindro il re dei re della mistificazione, quel lockdown che grida vendetta davanti al buon Dio. Esso è stato introdotto da subito all’inizio della pandemia, dai soloni della politica certamente timorosi di una reazione negativa da parte del pubblico, respingendo l’italianissima “clausura”, forse un poco cruda, ma assai realistica. La temuta protesta non c’è stata e il popolo, assai meno bovino di quanto i suddetti soloni ritengono, conscio del pericolo incombente, in linea di massima, ha ottemperato. Si dice che si deve parlare come si mangia: e allora si dica bread to bread and wine to wine (scusate, ci sono cascato: volevo dire pane al pane e vino al vino), non ci si rifugi dietro parole altrui e ci si ricordi del verso di Dante (Inf. XXXII): “… il bel Paese là dove il sì suona” e non già lo yes. Memore della nostra inossidabile amicizia, ti saluto con alpina simpatia.

    Cesare Di Dato, Sezione di Como,
    già direttore de L’Alpino

    Quale Presidente del Consiglio di amministrazione di una Fondazione mi capita spesso, troppo spesso, di dover fare delle conferences calls, dove mi chiedono: ma tu come lo immagini lo storage (conservazione di un bene) e quando parti con la digital library? Ma non ti dico i Cdp e Cdn nostrani in streaming, quando non è un incontro culturale in webinar o un brain storming. Caro Cesare, sembra che se uno non “sbrofa” in inglese non sia all’altezza dei tempi (sbrofar in dialetto veronese sta sia per sbruffone, ma anche per uno che fa schizzi intorno, che sporca. Le sbrofe di chi mangia ad esempio!). Ti chiedi infine perché abbiano scelto lockdown, letteralmente clausura, e dici di non capire. E io non capisco perché tu non capisca. Ma te lo immagini se Conte o Draghi ci avessero mandato tutti in clausura? E non penso solo agli anticlericali.