‘Negli alpini ho trovato quel vincolo d’amore che dovrebbe unire tutti gli uomini’

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    L’ultima volta che ho incontrato don Carlo Gnocchi è stato il 12 settembre del 1954. Era venuto con due mutilatini, figli di alpini, qui a Cologne Bresciano per officiare la prima Santa Messa nella chiesetta costruita dagli alpini sull’alto di quel monte Orfano che sovrasta il paese, con dentro la Madonnina del Don, a ricordo dei tanti compagni che la guerra si era portati via. Mi aveva abbracciato come un vecchio amico!

    Ci eravamo conosciuti, nel 1941 in Montenegro, quando Lui era cappellano al 1º Gruppo Valle della divisione Julia ed io al btg. Val Fella. Varie volte avevo assistito alla sua Messa al campo e trovato nelle sue parole grande conforto e più voglia di vivere. Lo avevo rivisto molto tempo dopo in Russia, proprio quel 18 gennaio del 1943 a Podgornoje dove ci si era ammassati il primo giorno del ripiegamento e nulla sapevamo ancora di quello che ci attendeva: i quattrocento e più chilometri di marcia nella neve, gli undici sanguinosi e disperati combattimenti, i tanti feriti e congelati e i tanti, troppi compagni perduti.

    Ci aveva fatto fare il segno della croce, data la sua benedizione e dette parole di conforto e speranza che tanto ci avrebbero più tardi aiutato per sopportare ogni sofferenza in quei giorni nei quali si sarebbe combattuto, affrontata la morte, trascinati i compagni feriti, sperato che di lì a poco tutto sarebbe finito e alla sera si ringraziava il cielo di essere anche per quel giorno sopravvissuti.

    Quando quel 12 settembre 1954 rividi dopo tanti anni don Carlo qui a Cologne Bresciano, dove mi ero ritirato per invecchiare con quei miei alpini che mi avevano tratto in salvo dalla steppa trascinandomi per giorni e giorni su una slitta di fortuna dopo che ero stato gravemente ferito a Nikolajewka, io avevo appena finito di leggere, in una notte insonne, il Suo libro ‘Cristo con gli alpini’, libro pieno di umanità che a volte pare quasi una richiesta di perdono per quello che egli aveva visto e sopportato e per quanto questa umanità aveva sofferto.

    Avevo trovato in esso pagine di autentica poesia nelle quali l’animo nostro sembrava confondersi, parole spesso crude nel descrivere quella immane tragedia vissuta in terra di Russia, ma cariche di fede e di profonda malinconica tristezza nel tenero ricordo dei tanti compagni lasciati sulla neve benedicendoli e senza poter dire loro, il più delle volte, altro che misericordiose parole di conforto. E quel mattino mentre con don Carlo camminavamo uno accanto all’altro lungo il ripido sentiero che saliva verso la chiesetta era riaffiorata in me ancora più dolente l’immagine, della desolata steppa russa senza confini, di quella lunga colonna di uomini spiritualmente invincibile, ma che ogni giorno si faceva più misera e sofferente, e la neve che, sollevata dal vento, l’accompagnava come una cupa canzone quasi si fosse in una valle senza vita.

    I volti di quelli che la componevano non ero abituato a vederli per i nostri monti o meglio erano forse gli stessi, ma profondamente mutati dalla fatica e con lo sguardo allucinato. Il passo di quelle ombre era disfatto come di chi volesse stendersi sulla neve per abbandonarsi ad un pesante sonno forse senza risveglio. E per un momento mi erano nuovamente risuonati nelle orecchie il terribile frastuono delle katyushe e dei parabellum e le stanche voci dei miei alpini che mi chiedevano: ‘Sior tenent ghe rivarem a baita?’. Riprovai allora la fame, il freddo, l’angoscia delle notti passate in una isba ricolma di umanità dolente.

    Rividi quel piccolo altare posto accanto ad un pagliaio o in una isba diroccata e don Carlo chinarsi con il suo crocefisso sui feriti e su chi stava per lasciare questo mondo. Mentre salivamo, a un tratto don Carlo prese a dire: Vedi sono venuto qui volentieri, anche se la mia salute lascia un poco a desiderare, perchè porto sempre con me il sorriso casto dei miei alpini, i loro gesti pensosi, timidi e nascosti, perché in loro ho trovato quel vincolo di amore che dovrebbe unire tutti gli uomini, quel sentimento che crea pietà per la sorte comune, quel profondo desiderio di aiutare chi meno abbia avuto dalla sorte. Ed ho portato con me anche due dei tanti mutilatini, poveri bimbi della mia guerra, miei piccoli amici di dolore, che vengono assistiti in quella grande Casa di Milano perchè in loro vi è l’innocenza, la pietà e il perdono dei quali oggi vi è tanto bisogno .

    A ciascuno di noi è stata assegnata una misura di tempo che nessuno conosce e gravoso è il nostro camminare verso l’ignoto, verso mete mai raggiunte, confortati a volte dalla sola illusione di avere trovato la Verità, mentre rimangono immutate le tenebre della non conoscenza. E così, mentre più ci avviciniamo al momento di lasciare questo mondo senza sapere nulla di certo sul nostro nascere e divenire, più troviamo sollievo nella Fede. Ecco questo è uno dei tanti insegnamenti che ho ricevuto da don Carlo ogni volta che mi è capitato di incontrarlo e che ha lasciato a tutti noi.

    Qualche tempo dopo questo indimenticabile incontro purtroppo l’amato don Carlo Gnocchi ci ha lasciati. Dentro di noi è rimasto un incolmabile vuoto e ancora una volta abbiamo provato allora come grandi, immensi, possano essere i dolori e come essi spesso si portino via una parte importante della nostra vita tanto che poco ci turba oggi il pensiero di dover lasciare, anche se fosse domani, questo mondo che troppe volte troviamo molto diverso da quello che allora, tanto lontani da casa e dalle nostre montagne, sognavamo avrebbe dovuto essere.

    Ed ora anch’io come Mario Rigoni Stern, come Peppino Prisco e come tutti coloro che gli sono vissuti accanto nel momento del dolore e della sofferenza, mi porto sempre addosso la sua benedizione ed anche quel segno della Croce che ebbe a farci fare ogni volta che pregavamo con lui. Grazie mio adorato don Carlo di esserci vissuto accanto!

    Nelson Cenci Sten. del 6º Alpini, btg. Vestone Medaglia d’Argento al V.M.

    Pubblicato sul numero di novembre 2009 de L’Alpino.