Natale al fronte

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    E così arrivò il primo Natale di guerra, la prima vigilia al fronte. Si attendeva il miracolo della nascita lontani da casa ormai da sette mesi. Sulle pietraie del Carso, sui monti dell’Adamello e lungo il corso del fiume Isonzo i nostri soldati, gli uni accanto agli altri, desideravano celebrare come mai fino ad allora, la nascita del Redentore. I loro pensieri correvano giù sopra i nevai, giù per le valli fino ai paesi, fino alle case che avevano lasciato mesi prima. Parole scritte sopra a un foglio, lettere o cartoline che dopo un lungo viaggio arrivavano a destinazione e quietavano, almeno un poco, le ansie legate alla guerra.

     


    “Il primo natale di guerra lo passai all’ospedale, curandomi la zucca, uscita malconcia dallo scontro con un trecentocinque che però fu abbastanza educato e ragionevole: il secondo, quello del 1916, alle ridottine di conca Mandrone, tirando cinghia e la storia ve la conto più sotto: il terzo a Temù, dove facevo l’imboscato alle salmerie del mio battaglione e uccidemmo porci da due quintali l’uno, allevati da Serioli coll’avanzo del rancio: il Natale del 1918 mi vide intento ad un’opera di carità cristiana, perché stavo erudendo nella lingua italiana una tedeschina di val Venosta, bionda come il grano e un musetto che aveva il sapore e la pelurie delle pesche primaticce e gli venga la febbre terzana a quelli che ci troveran da ridire. L’inverno del 1916, fu un inverno memorabile, perché nevicò come non mai e proprio la settimana prima di Natale, ne venne giù tanta e tanta che quasi rimanemmo sepolti. In conca Mandrone, dove la tormenta accumulava tutta la neve delle creste che la circondano, raggiunse altezze spropositate: niente più traccia di trincee o di reticolati: gallerie e cunicoli da talpe erano i male odoranti accessi alle baracchette, sepolte sotto metri e metri di neve. Il Val d’Intelvi che doveva salire a darci il cambio, non poté muovere un passo su per i canaloni di Lagoscuro e, per colmo di fortuna, il teleforo, che riforniva conca Mandrone, si ruppe, scomparendo nella neve, irrimediabilmente. Mandare uomini di corvé era roba nemmeno da pensarci e il comando di Divisione, generosamente, ci autorizzò a consumare i viveri in dotazione alle singole posizioni. Galletta muffa e nella quale i topi avevano fatto il nido da sei mesi, scatoletta gelata e una fetta di lardo che non riuscivi a mandare giù, buona caso mai, per ingrassare le scarpe: una cuccagna! A Lagoscuro erano giunte casse di doni per tutti, dolci, vino, un panettone ogni dieci uomini: tutta questa manna a due ore di cammino e non si poteva scendere per nessun verso. La sera di Natale non ebbi il coraggio di entrare nella baracca degli uomini che avevano festeggiata la ricorrenza con una scatoletta fatta friggere nel lardo rancido. Avevo un umore da cane arrabbiato e anche i miei uomini non dovevano star meglio: mi ficcai nel sacco a pelo, ringhiando, voltandomi per dritto e per rovescio, con la speranza di addormentarmi. Fuori tormenta come in una notte di streghe. Il sonno, finalmente! Oh il bel sognare nel sacco a pelo tiepido ed ospitale! Anche la pancia smette di mulinare e si distende: «buona notte!» mi dice l’attendente e si butta a dormire in un angolo. Ecco: a casa si stanno tutti raccogliendo per la messa, le strade sono ovattate di neve e le case piccole, incappucciate di bianco per il gran freddo che fa. Lumi lontani scendono per i sentieri del monte e tutti si ricambiano gli auguri e i saluti, a voce alta, nella notte e fanno i nomi dei figlioli lontani: la chiesa è aperta e ne esce il suono dell’organo, il prete canta la pace a tutti gli uomini che di pace non ne vogliono sapere e, anche in questa notte, seguiteranno ad ammazzarsi con la medesima rabbia. Ora la messa è finita e tutti ritornano: le campane suonano a distesa nella notte piena di stelle: nel tinello ben caldo la tavola è preparata, bianca e coi dolci tradizionali: Buon Natale a tutti! dice la mamma, con la voce che le trema, perché dei due figlioli grandi, uno è già morto e dorme sotto la neve alta del Rombon senza pace e l’altro è lontano, in mezzo a tanto ghiaccio e a tanta neve, ma stanotte è Natale e un poco di sorriso può ritornare sulla bocca stanca e dolorosa”.

    G.M. Bonaldi (5º Alpini)


    “Mammina buona, brava, evviva la mia mammina eroica! Ho ricevuto le tue del 18 e del 16 e sono contento. Così ti voglio, fiera del tuo Alpino. Sono dolente che qui la posta va e viene quando vuole, è un disastro ed ora potrei scriverti tanto… Avrai ricevuto altre mie cartoline, il 15 siamo stati su e vi rimanemmo sino al mattino del 18. Sono vivo per un vero miracolo! Tu la mattina del 15 pregavi per me lo so, una fucilata mi buca il passamontagna! non il cappello e va a ferire un altro ad un piede! È vero che pregavi? Ne sono sicuro. Grazie mia mammina bella, a te devo la vita. Spero che verrà Papà e di esserci ancora, a lui racconterò tutto. Ma i tedeschi non sono passati! Ah, se l’esercito avesse trenta reggimenti di alpini e niente altro, credi che si sarebbe già a Vienna o Berlino. Facciamo Natale in tre, i superstiti della 303ª: io, Stufferi e Bongiorni. È Natale, il primo che passo fuori di casa, mammina mia buona, stai sicura che il mio pensiero è fisso in te, anche l’altro giorno prima dell’azione, prima di salire nell’alta trincea ho baciato la tua medaglietta, mi ha salvato. Natale! Andrò a messa e pregherò per la Patria, e per te, per Papà, per Tunny e anche per me, sei contenta?”.

    Aldo Zamara (3º Alpini)


    “Carissimi, ormai siamo proprio a Natale, anche noi attendiamo la festa con una certa gioia, perché sicuri di farlo a riposo, non rinunceremo a nessuna usanza vecchia. I soldati avranno anche loro un rancio speciale, il baccalà, poi dei doni verranno da Udine. Il cielo ci aiuta a trascorrere il Natale in santa pace, piove continuamente e il sole non accenna neppur a farsi vedere. Senza dubbio sono le tue preghiere o Mamma. Il pacco dei dolci è arrivato e sparito nello stesso tempo, la spongata è piaciuta moltissimo, i miei amici e colleghi vi ringraziano. Vedete che noi siamo lieti per quel tempo piovoso che ci protegge e anche per quell’odore di pace che volere o non volere comincia a farsi sentire. Per ora nulla di nuovo, in baracca si sta benone e si fatica poco, il paese è infame ma è fuori tiro, poche case, molti… e parecchi maiali. Penso a proposito di questo e con una certa acquolina in bocca ad una fetta di prosciutto a casa. Quando verrò? Chissà mai! Mille auguri con mille baci più e sempre più carissimi”.

    P. Monelli (7º Alpini)


    “Per farci perdonare le bestemmie, abbiamo costruita al cappellano una chiesetta fra gli abeti, il tetto con lo sgrondo ricamato, e sull’altare in quadro i nomi dei nostri morti. Ma la messa di Natale l’ha detta sotto la cima, mentre nevicava un poco e la nebbia ci copriva dai cecchini. Anche le montagne di casa nostra ci nascondeva la nebbia, e Cima d’Asta, e la valle; tutto era così lontano, infinitamente lontano, la patria, la famiglia, gli amici, tutti li sentivamo assenti troppo dal nostro cuore intirizzito, che oggi non ci crede più. Non c’è che il buon Dio con noi, in questo esilio di ghiaccio. Preghiamo il buon Dio che ci difenda, che faccia di rimandarci a casa sani visto che siamo in fondo dei buoni ragazzi, e se proprio non è possibile, ci dia la buona morte di Morandi e Monegat che non hanno avuto agonia. Sci, serenità. Ma il cecchino dalla croda ci spia, sibila alta sul capo la fucilata. Ammonimenti. Laggiù, verso l’Italia, il colore delle mie nostalgie si diffonde sulla catena del Pavione”.

    P. Monelli (7º Alpini)