Monsignor Enelio Franzoni, cappellano in Russia, Medaglia d’Oro al Valor Militare, è mancato lunedì a Bologna. Aveva 94 anni. I suoi funerali si sono svolti mercoledì 7 marzo nella chiesa in cui era parroco, quella di Santa Maria delle Grazie in San Pio V, fuori porta San Felice.
Con don Franzoni, come lo chiamavamo tutti, scompare una delle figure più rappresentative di quella immane tragedia che fu la Campagna di Russia, e la guerra in generale. Era stato inviato in Russia nel ’41 con la divisione Pasubio ed era stato fatto prigioniero nel dicembre del ’42, essendosi rifiutato di abbandonare il suo caposaldo prima dell’arrivo dei russi. Nel campo di prigionia di Suzdal aveva rinunciato due volte al rimpatrio, preferendo restare con i soldati italiani, assisterli, curarli.
Era tornato in Italia nel ’46. Chi ha avuto la fortuna di parlargli, di ascoltare i suoi discorsi e i suoi racconti, conosce la levatura morale di questo cappellano, sacerdote di Cristo e maestro di vita, la sua grande umanità, la sua santità. Una grande figura di riferimento per tutti gli alpini.
Monsignor Enelio Franzoni.
Questa la motivazione della Medaglia d’Oro al Valore Militare concessagli al rientro in Patria dalla prigionia:
Cappellano addetto al comando di una Grande Unità, durante accaniti combattimenti recava volontariamente il conforto religioso ai reparti in linea. In caposaldo impegnato in strenua difesa contro schiaccianti forze nemiche, invitato dal Comandante ad allontanarsi, finché ne aveva la possibilità, rifiutava decisamente e, allorché i superstiti riuscirono a rompere il cerchio avversario, restava sul posto, con sublime altruismo per prodigare l’assistenza spirituale ai feriti intrasportabili. Caduto prigioniero e sottoposto a logorio fisico prodotto da fatiche e privazioni, noncurante di se stesso, con sovrumana forza d’animo, si prodigava per assolvere il suo apostolato. Con eroico sacrificio rifiutava per ben due volte il rimpatrio onde continuare tra le indicibili sofferenze dei campi di prigionia la sua opera che gli guadagnò stima, affetto, riconoscenza ed ammirazione da tutti. Animo eccelso votato al costante sacrificio per il bene altrui’.
Fronte Russo, dicembre 1942 Campo di prigionia, 1942/46
L’ho conosciuto una decina di anni fa. Prima l’avevo visto officiare la S. Messa della Julia che tutti gli anni alcuni reduci organizzano durante l’Adunata Nazionale. Mi aveva sempre incuriosito: riusciva a trattare l’argomento più tragico dell’intera Campagna di Russia, mi riferisco alla prigionia, lasciando nell’ascoltatore un senso di speranza. Che senso poteva avere la parola speranza associata ad un momento così buio?
Tutte le volte me ne tornavo indietro sereno e turbato al contempo. Poi ho avuto il privilegio di stare un po’ con don Enelio, di parlare con lui. Quest’uomo piccolo nelle dimensioni ma gigantesco nello spirito, quando ha saputo che ero il nipote del colonnello Lavizzari, comandante del 9º Reggimento Alpini caduto in prigionia, mi ha guardato, mi ha preso le mani e le ha baciate. Poi mi ha abbracciato piangendo.
Si è seduto con me e mi ha invitato a pregare con lui la Vergine Maria. E io l’ho fatto con una naturalezza che mi ha sbalordito. Poi mi ha parlato della prigionia, di come lui stesso in principio avesse perso la fede; di come, poi, l’avesse recuperata per merito di un alpino che gli chiedeva di recitare il rosario. Cappellano recitiamo un rosario? e io gli ho risposto, come in preda ad una specie di follia e quasi per schernirlo: Ma sì recitiamo un rosario! , e tutti i presenti mi hanno guardato e hanno cominciato a pregare assieme a me.
Da allora tutte le sere recitavamo il rosario e la mia fede, quella che pensavo di avere perduta, è tornata più forte di prima . E mentre raccontava sorrideva. Sorrideva sempre, mons. Franzoni: per la dolcezza del ricordo dei sentimenti provati, delle prove superate. Sorrideva per la consapevolezza che l’uomo può essere tale anche nella peggiore delle tragedie. Sorrideva perché queste cose le aveva viste e provate sulla sua pelle, nella sua anima.
Sorrideva anche al pensiero dei suoi carcerieri, nei confronti dei quali non nutriva alcun rancore. Poveretti anche loro , diceva sempre. Sorrideva parlando dell’Adamello, di quella immensa cattedrale che Dio ha donato agli uomini e in particolare agli alpini. Stare con lui provocava uno stato di totale serenità. Come se tutte le tragedie le avesse assorbite e sconfitte. Era una sensazione incredibile e difficile da descrivere.
Ci si rendeva conto che anche lui era fatto di carne e di ossa, ma che aveva qualcosa in più. E più si cercava di carpirne il segreto meno si riusciva a comprenderlo. Era necessario farsi trasportare dal suo spirito. Abbandonarsi ad esso, alla luce dei suoi occhi, al soffio della voce, alla dolcezza dei gesti e delle parole.
Non so se sarà mai ufficialmente riconosciuto, ma sono certo che è la persona, che io abbia conosciuto, che più si avvicina al concetto di santità, così come sono certo che oggi Don Enelio contempla la luce dell’Altissimo, accolto nel Paradiso di Cantore per meriti speciali lui che alpino non era sul foglio matricolare ma che con gli alpini ha tanto camminato e sofferto e pregato. Ciao Don Enelio. Gli alpini non ti scorderanno mai.
Cesare Lavizzari