Metti gli alpini in passerella

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    Non è di tutti i giorni vedere alpini che passeggiano davanti al Red Carpet della Mostra del Cinema di Venezia. Qualche operatore della comunicazione ci guarda con faccia interrogativa per sapere perché ci troviamo lì. Ma la maggioranza tira dritto, assorbita dall’attesa di qualche apparizione importante sul tappeto rosso. Ogni tanto a risvegliare il delirio delle attese sfila qualche attrice in cerca di adoratori. Mi accorgo d’essere fuori tempo, e probabilmente fuori posto, dal fatto che non ne riconosco alcuna.

    Che siano belle non ci piove. Ma per me potrebbero chiamarsi indifferentemente Bellina Melassa o Ghiandina Porcu. Intorno, uno stuolo di fan in deliquio. Più che colpiti dalla bellezza, in cerca di un selfie. Sono soprattutto giovanissime, vestite dal dermatologo. Ma ci sono anche maschi, acconciati in modo da mimetizzare l’appartenenza di genere. Il sogno è sempre quello, come una fissazione. Più che il fascino del benessere economico, brilla il sogno della notorietà. Una particina in qualche film o una foto accanto a una diva, da mostrare sui social per accelerare una professione tanto di moda, quella degli influencer, ossia il foraggio del pecoronismo in versione digitale. Mi avvicina un cronista, probabilmente colpito dalla mia faccia che racconta quello che penso. Mi rifila tre domande come proiettili del Garand.

    Mi chiede cosa faccio lì, cosa penso di quello che mi passa sotto gli occhi e come si trova un alpino in quella situazione. Rispondo che sono lì per il film Le sette giornate di Bergamo, che racconta il miracolo degli alpini e del loro ospedale da campo, venuto su in sette giorni, a dispetto di ogni logica. Siamo in attesa che inizi la proiezione di lì a poco. Sul come mi senta, rispondo che sono pervaso da compassione. Mi sembra d’essere nella bottega delle illusioni senza fondamento e delle speranze senza futuro. Guardo quei giovani che sgomitano per essere all’appuntamento col nulla e mi viene in mente il nostro Presidente, a consumare le suole su e giù per l’Italia, da Milano a Roma e da Roma a Milano, per convincere i politici a stabilire un periodo di servizio obbligatorio dei giovani alla Patria.

    Un bene pedagogico per loro, prima ancora che per la Patria, come ci racconta anche il successo dei campi scuola della scorsa estate. Su come si trovino gli alpini in quel luogo, rispondo che l’unico problema al momento sono le scarpe. Spesso usano quelle da montagna, perché alle passerelle del Lido, di solito preferiscono sentieri e ferrate. Più spesso hanno scarpe da lavoro, magari con la punta rinforzata, per evitare che qualche peso schiacci le dita. Spesso sono scarpe sporche, perché camminano tra i calcinacci del terremoto, i detriti portati dai fortunali o il fango di qualche alluvione.

    Scarpe a parte, ci sentiamo bene anche lì, perché a noi stare con la gente piace e di solito non chiediamo passaporti ad alcuno tra quelli che incontriamo. Ma ci sentiamo bene soprattutto perché di lì a poco andremo a vedere cosa Simona Ventura, in qualità di regista, ha voluto raccontare degli alpini a Bergamo durante la pandemia. Sessantacinque minuti di scene, che descrivono la nascita dell’ospedale da campo, un miracolo vero, che nessuna altra realtà avrebbe saputo mettere in piedi con analoga tempestività. Sono immagini che scorrono senza retorica. Parlano i fatti e da soli bastano.

    Alla fine sono quattro, cinque minuti di orologio per gli applausi. Interminabili, con brevissimi cali di intensità, ma solo per dar riposo ai muscoli delle mani, in attesa di riprendere con ancora maggiore vigore. La regista si lascia andare a qualche lacrima. In quelle lacrime c’è il premio per una fatica che ha raccolto consenso oltre le aspettative. Ma in quegli applausi c’è anche la gratitudine della gente per gli alpini e il loro orgoglio davanti alle immagini che raccontano ciò che sanno fare e che, solo per una sera, anche loro hanno guardato da spettatori.

    Bruno Fasani