Memoria senza odio

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    Se ne parla.

    Nel 1931 nelle Università italiane c’erano 5472 professori, tra ordinari, liberi docenti e incaricati. Soltanto 12 dodici! si rifiutarono di giurare fedeltà al regime.
    Il conformismo dilagava, per non parlare degli insegnati delle scuole superiori, delle medie e delle elementari sui quali c’è tutta un’anedottica fra ridicola ingenuità, cieco allineamento, rassegnato interesse o, soltanto, paura. Gli intellettuali facevano una tiepida fronda, i più coraggiosi finivano al confino (solo 221 su 4.665, quasi tutti, questi ultimi, operai o contadini) o riparavano all’estero.

    Nel dopoguerra la storia è stata scritta a tutto vantaggio dei vincitori, con la divisione degli italiani in buoni e cattivi, vincitori e vinti. Una divisione che, sessant’anni dopo, non è ancora finita. Sessant’anni dopo stiamo ancora discutendo, celebrando, accusando, isolando : tutto, tranne che chiarendo.
    Ma finalmente è possibile rivisitare gli anni che vanno dall’8 settembre al primo dopoguerra e scoprire così che non fu proprio tutta gloria da una parte, né tutta infamia dall’altra, anche se per decenni la linea ufficiale fu quella di ignorare, accantonare. Dimenticare, per esempio, che centinaia di migliaia di soldati (oltre mezzo milione!) preferirono l’incerta sorte della prigionia piuttosto che tradire il giuramento di fedeltà; che altre migliaia lo rispettarono, spesso in buona fede, dalla parte opposta; che migliaia di soldati presero le armi e iniziarono sì, iniziarono! quella che fu chiamata Resistenza e che soltanto oggi gli storici chiamano per quello che fu: una guerra civile. Il fatto è che i libri di storia non devono essere scritti dai politici ma dagli storici.

    Oggi si scopre che non ci fu solo il sangue dei vincitori ma anche quello dei vinti, che c’è una linea grigia da illuminare, armadi della vergogna da spalancare. E che è tempo di chiudere le ferite ancora aperte e guardare al domani. Come, del resto, hanno fatto gli spagnoli con la loro guerra civile, i francesi con la repubblica di Vichy, i tedeschi con le due Germanie.
    Abbiamo ferite ancora aperte, perché per troppo tempo non è stato considerato politicamente corretto (né utile) smettere di condizionare il presente con un passato illuminato solo in parte. Le pesanti responsabilità storiche di Mussolini, del fascismo e di altri restano, guai a dimenticare: un popolo che non ha memoria non ha neanche futuro.
    Ma è necessario conservare la memoria affinché dittature e tragedie come la guerra e le conseguenti atrocità non facciano più parte della nostra storia e si ritrovi l’identità di un Paese che non sa odiare.

    Gli alpini non dimenticano, e lo fanno nel modo migliore: si adoperano per costruire e tutelare la pace, aiutano il prossimo e o­norano tutti i Caduti. Così, capita che sul nostro Medagliere e, conseguentemente sul vessillo di qualche nostra sezione, ci siano medaglie d’Oro al Valor Militare conferite ad alpini che persero la vita su fronti ideologicamente opposti.
    Capita anche che chi ricopre cariche istituzionali, sull’onda lunga d’una visione miope e disinvolta della storia, affermi che i Caduti italiani di El Alamein (e allora perché non anche quelli di Russia, dei Balcani, di Francia, di Grecia e, dunque, perfino di Nassirija? siano caduti dalla parte sbagliata .
    L’Europa sta diventando sempre più grande, sempre più l’Europa delle Patrie. Il cammino non è né scontato né facile, perché dobbiamo lasciare alla storia quanto appartiene alla storia, con le sue tragedie, le sue sofferenze. Non basta abbattere muri e confini: è necessario avere il coraggio di costruire insieme la pace.