L’ultimo Presidente reduce

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    «Nikolajewka per me è quella chiesa dal cui campanile una mitragliatrice seminava tra noi terrore e morte, e io ebbi l’ordine di andare a farla tacere: e allora mi misi a correre in direzione di quella chiesa e ad ogni passo mi dicevo: ‘Adesso mi prendono, adesso mi prendono, adesso mi prendono…’. E invece, come per un miracolo, quando fui a pochi metri dalla chiesa la mitragliatrice tacque e io allora mi misi a piangere. Nikolajewka per me è quel maledetto terrapieno che si presentò a noi candido perché coperto di neve e poco a poco divenne tutto nero, un puntino nero dopo l’altro, un alpino dopo l’altro. Nikolajewka per me è il sottotenente Mori del battaglione Verona che, prima di partire all’attacco, ha chiesto al capitano se con i suoi alpini poteva fare un’ultima cantata: e fu proprio l’ultima, perché poco dopo cadeva alla testa dei suoi uomini falciato da una raffica nemica. Nikolajewka per me è l’attendente del sottotenente Nelson Cenci che, visto cadere il suo ufficiale con un ginocchio passato da parte a parte da una pallottola e con il femore dell’altra gamba spezzato da un’altra pallottola, lo raccolse amorevolmente e lo adagiò su una slitta, riuscendo in tal modo a portarlo in salvo: e quando Cenci, febbricitante e arso dalla sete gli chiedeva da bere, non avendo a disposizione nessun recipiente, riempiva la bocca d’acqua e poi gliela passava appoggiando le sue labbra su quelle del suo tenente e subito dopo gli diceva: ‘Forza, signor tenente, che ce la faremo!’». Questa fu la sua esperienza al fronte. LEONARDO (NARDO) CAPRIOLI, medico, nacque a Bergamo il 24 novembre 1920. Visse nel nocciolo dell’Associazione, quello del Gruppo e della sua Sezione, prima di arrivare sul gradino più alto di via Marsala 9. Nel 2010, dopo l’Adunata nazionale a Bergamo che lo vide sfilare su una jeep accanto all’amico dottore e alpino, Lucio Pantaleo Losapio, venne intervistato da una emittente locale: «Cosa ha provato ieri?».

    «Ho continuato a piangere durante il corteo… una emozione grandissima, per fortuna sono riuscito a trattenere le lacrime quando sono passato davanti alla tribuna». Continua il giornalista: «È come se 500mila persone l’avessero abbracciata, tutte insieme, lo sa?», «Lo so e io ricambio il loro abbraccio con tanto affetto. Viva gli alpini sempre, sempre sempre…» poi la commozione rompe la voce e l’intervista termina così. Un uomo che aveva sofferto, poco incline a slanci affettuosi, convinto che i sentimenti si dovessero nascondere dietro al pudore e alla riservatezza e si traducessero nei fatti, nei gesti concreti. «Gli occhi, il viso, lo sguardo di Caprioli incutevano soggezione – ricorda Beppe Parazzini – Non cercava di “farsi amico” perché diceva che l’amicizia arriva da una scelta condivisa dagli interessati, quindi, dal suo interlocutore. Scelsi di tentare e incominciai ad annusarlo. Un poco alla volta, lentamente, grazie anche a Luciano Gandini, ho imparato a capirne i silenzi, ad interpretarne le occhiate, i moti di stizza, i sorrisi inaspettati, le speranze e le ragioni di certe sconfinate, apparentemente inutili, gloriose battaglie associative. Di ritorno dai Palazzi romani, dopo avergli raccontato dell’ennesima disputa per la leva obbligatoria, mi confidò, con un sorriso, di non avermi visto litigare (risiar?) con gli alpini ma solo per gli alpini. Tralascio di quando in Canada gli feci indossare il copricapo dei capi-tribù con le penne di airone e d’aquila (era perfetto ma rifiutò di farsi fotografare) e della sua reazione alla scelta del Cdn di tenere l’Adunata ad Asiago invece che a Bergamo o di quando all’Adunata a Reggio Emilia confermò la volontà di far sfilare gli alpini con il cappello al cuore nonostante le incredibili pressioni delle Istituzioni tutte». Uno stile di vita, una filosofia che Caprioli riassunse nel motto che poi divenne degli alpini tutti, “ricordare i morti, aiutando i vivi”.