L’epos cristiano degli auguri

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    Mario Montali è un reduce del secondo conflitto mondiale, un alpino di cent’anni. Andate a Langhirano per scoprire in che modo la Pasqua rientri nel sistema valoriale degli alpini. C’è memoria della guerra d’Albania in provincia di Parma. Sotto un cappello della Julia, se avrete la fortuna d’esser invitati, troverete il ricordo di una Messa, di un rito collettivo celebrato nei Balcani. Vi racconteranno con precisione di una celebrazione di ottant’anni fa.

    Mario la descrive per tutti voi: «Don Gnocchi era un cappellano della divisione Julia durante la guerra in Albania. Che io gli ultimi giorni avevo i piedi congelati e non andavan più le scarpe. Mi era venuta la maledetta idea di cavarmi le scarpe la notte, al mattino avevo i piedi gonfi e non andavan più dentro e sono andato dal capitano e c’ho detto mi han rubato mi han cambiato le scarpe. No, dice vai giù, se trovi un’infermeria… è come andar a cercare un’infermeria in mezzo a quel bosco là. Era il giorno di Pasqua, ma non sapevo io che era Pasqua e c’era un assembramento di un po’ di persone. E vado là e c’era Don… questo cappellano. Se paja cappellano perché portavano la croce e allora diceva la messa. E allora sono andato e c’ho detto vorrei confessarmi perché allora si diventa anche credenti più del normale, almeno da parte mia. E ha detto vai vai che i peccati li hai già scontati. […] Ho saputo chi era Don Gnocchi tramite la stampa. Siamo andati al funerale a Milano anche quando è morto. Poi lui dopo l’Albania è andato in Russia. Aveva cambiato divisione era andato alla Tridentina, noi eravamo alla Julia… Era andato volontario perché aveva promesso ai suoi alpini che ai figli avrebbe pensato lui e l’ha fatto, l’ha fatto, l’ha fatto anche bene. È lunga la storia».

    Ora osservate i biglietti con gli auguri di Pasqua che la redazione de L’Alpino riceve ogni anno. La storia è lunga, ammonisce Mario. Tra i tanti spicca quello che trovate a margine di questo corsivo. Lo riconoscete? È il cappello della “Vecia”, ma non appartiene solamente alla gloriosa Sezione piemontese. Come ogni feltro alpino non può infatti incarnare una storia individuale per quanto rilevante essa sia. È il simbolo della comunità d’appartenenza. Per gli alpini il cappello è anche la metafora dell’unione tra la pace e la guerra dei padri, tra vita e morte. È un vincolo originario che nei biglietti d’auguri pasquali viene sempre affiancato da frasi o immagini che rimandano alla risurrezione.

    Andate con la mente a Langhirano, poi guardate i vostri biglietti e confrontate. Osservando i biglietti che avete spedito per il Natale mi son ricordato invece di un articolo intitolato “Gli allegri Natali dell’alpin Pelassa” che descrive le vicende di un alpino dalla guerra mondiale al 1948, passando attraverso lo status di Imi (Internati Militari Italiani). È una storia sospesa quella di Pelassa, una vicenda che compare sul periodico dell’Ana nell’ultima annata del 1948.

    È il racconto di un alpino tra alpini, le cui stagioni sono scandite, dal 1942 al 1948, dalla festa della natalità: «Sono uscito dalla steppa per il rotto della sacca e nel Natale del 1943 in premio delle mie fatiche e del mio lodevole comportamento, mi hanno mandato in licenza in Polonia». Pelassa non trova la pace in una personale anabasi. Il suo ritorno necessita di una condivisione, dell’augurio che la serenità colpisca tutti indistintamente dopo tante sofferenze: «Così il Natale del 1948 mi ha salutato finalmente felice, senza Caterina, nella mia baita, accanto al camino rischiarato dal tradizionale ceppo scoppiettante, mentre leggevo il mio giornale preferito, al quale mi sono abbonato subito e che mi aiuta a vivere tranquillo e sereno con la mia pipa ed il mio fischietto: la migliore politica di questo mondo! Ve lo assicura, abbracciandovi e facendovi tanti auguri, il vostro». Cercare nei vostri biglietti un confronto col Natale del ’48 potrebbe risultare, ad una prima valutazione, quasi irriguardoso. Guardiamo meglio però, quello di Pelassa non è un semplice ritorno a baita. Cercate nel corsivo il tema della familiarità, anche negli oggetti. Solo allora guardate il biglietto della sezione Valtellinese, che è la sintesi perfetta di molti altri.

    Guardate sotto il cappello e cercate la corrispondenza degli affetti. Con i vostri biglietti volete parlarci di un luogo che conserva la vostra memoria. State raccontando di una concezione alpina che coniuga antiche virtù e sacralità cristiana nell’amore per la casa. Forse ora ci siamo mossi da quelli che sembravano “solo” auguri. I biglietti sono un’antologia di quei principi familistici e cristiani che hanno plasmato il canone alpino e che vengono utilizzati sotto forma, appunto, di “auguri”. In quei cartoncini colorati la famiglia rappresenta il mondo degli affetti, dei legami non solo di sangue, ma comunitari.

    La famiglia alpina li persegue attraverso lo scandalo della gratuità. Nei biglietti sono rintracciabili quindi i temi della pietas cristiana, un elemento della dignità umana che rappresenta la pietra angolare della storia degli alpini. È una rappresentazione etica a cui lo stesso Pelassa s’aggrappa durante l’odissea verso casa. Famiglia vuol dire anche memoria della casa natale per Pelassa, allo stesso modo che nei biglietti d’auguri di Natale arrivati a via Marsala. Prendete L’Alpino, sfogliatelo, fatelo pensando alle due festività ricordate.

    Nel recente passato mi è stato affidato il compito di analizzare la vostra stampa sotto l’aspetto scientifico. Cento anni di stampa, decenni di storia, non di semplice carta. L’ho fatto con i miei occhi, quelli di uno studioso, che alpino non è. Concedetemi però di ricordarvi che resto tra quelli che prende appunti quando parla Mario, perché in questa storia ho sempre cercato di decifrare la complessità, una cifra che è possibile trovate anche in una frase o un’immagine sotto un cappello alpino, magari in un biglietto d’auguri.

    Federico Goddi