L’alpino sedafricano

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    Articolo di tipo Articolo pubblicato nel numero di Gennaio 2019 dell’Alpino

    Nella sua casa in provincia di Pordenone, dov’è nato il 9 marzo del 1967, Vittorio Dalla Cia aveva imparato da bambino a convivere con i sentimenti alpini. “Colpa” del papà, Sergio, e del suo cappello con la penna, con il quale Vittorio inizia a giocare, calzandolo in testa come un trofeo. Soprattutto sono i canti dei cori alpini a colpire i sentimenti e la fantasia del bambino. In primis il Testamento del Capitano. In quei canti c’è lo spettro di tutti i sentimenti umani: la gioia, il dolore, la pace, la guerra, l’amore, la Patria, le montagne…

    È un salto nell’incognito quando a sette anni i genitori decidono di trasferirsi laggiù, in fondo all’Africa, a 13mila chilometri di distanza da casa. Città del Capo, Sudafrica. A Stellenbosch, per l’esattezza, meravigliosa cittadina a nord del capoluogo. Vittorio è sveglio. A lui e alla sorella bastano tre mesi per parlare correttamente con i nuovi compagni di scuola, tanto più che la cameriera di casa, una signora di colore, fa la donna di servizio ma anche la teacher per i nuovi arrivati. Fanno presto i bambini a voltare pagina. Più difficile cancellare l’imprinting che si portano dentro, che di quando in quando affiora con prepotenza.

    Le prime avvisaglie arrivano nel ’92, quando Vittorio porta a casa la laurea in psicologia e arriva l’ora in cui deve decidere dove fare il servizio militare, vista la doppia cittadinanza acquisita. La curiosità dello psicologo, o forse un richiamo ancestrale che viene dalla coscienza infantile, lo porta a optare per l’Italia. A Pordenone, dove sceglie il domicilio, chiede di diventare ufficiale degli alpini e da là lo mandano a Verona per fare tutte le visite del caso. Gli scoprono un leggero difetto di discromatopsia, ossia difficoltà a distinguere bene i colori. E così nulla da fare per le stellette. Le dimentichi. In compenso, d’ufficio, lo spediscono a Pesaro, in Fanteria. La delusione è cocente. Passa solo un mese, quando un giorno chiedono se qualcuno vuol fare l’alpino.

    La risposta è ovvia. Dritto sparato, Vittorio si trova a Tarvisio, battaglione Gemona. Arriva a mezzanotte. Il mattino dopo il comandante si informa di questo nuovo venuto. Sudafrica? Ci sarebbe una missione in Mozambico gli prospetta il capo. Non ci penso neanche, gli risponde convinto. Io voglio restare nelle Alpi, con gli alpini di qui. L’esito di quella scelta non si rivelerà del tutto all’altezza delle aspettative. Verso di lui c’è diffidenza. Chi è mai questo alieno, che parla con accento inglese? Che ha voluto fare la naja a tutti i costi, quando qui si farebbero carte false per stare a casa? Bel terrone è arrivato! Così lo chiamano, così lo apostrofano. E giusto per non dare troppa confidenza, gli alpini, tra loro parlano un furlan stretto. Per farsi accettare ci vuole un po’ di tempo, come per sciogliere i groppi.

    Pian piano l’amicizia con alcuni diventa vera e anche l’esperienza acquista spessore.Poi la svolta gratificante. Siamo agli ultimi quattro mesi di naja, quando Vittorio viene scelto come interprete, dentro una pattuglia di ricognizione, in una competizione della Nato in Irlanda. Bisogna entrare in territorio nemico, dove i nemici sono sì degli alleati, ma si comportano da nemici. La prova è dura ma, alla fine con i compagni di pattuglia porta a casa una medaglia d’oro per essersi qualificati primi. È col dolce in bocca che Vittorio termina il servizio militare tra gli alpini.

    In Italia si ferma ancora un anno e mezzo. Per pensare a cosa fare nella vita, ci racconta. In realtà perché s’è trovato la morosa e l’Africa può attendere. Rientrerà nel ’96. Partecipa a un concorso come psicologo per l’esercito del Sudafrica. Lo vince ed entra nel Corpo Medico. Ora lavora con il grado di maggiore. Gli chiedo cosa sia l’Ana per lui. Una realtà unica al mondo, che affascina e attrae, risponde senza esitazione. Avrebbe voluto essere a Trento, per l’Adunata, ma ne è stato impedito da una indisposizione momentanea. Ma ci sarà alle prossime, visto che l’imprinting degli alpini non gli è più uscito da dentro.

    Esattamente come succedeva da bambino, affascinato dal suo papà, dal suo cappello, dai canti degli alpini e dalle Dolomiti. Suggestioni mai scomparse che porta negli occhi e dentro al cuore.

    Bruno Fasani