L’alpino con la cravatta rossa

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    Sono nata sul finire del 1945 a Pareto, un piccolo paese della provincia alessandrina, sull’appenni- no ligure-piemontese, ultima di nove, tra fratelli e sorelle Borreani. Penso spesso agli alpini della mia famiglia. Penso a papà Pietro, classe 1891, del 1° reggimento alpini, combattente sul Dente del Pasubio nel primo conflitto mondiale. Penso a mio fratello Cesare, classe 1937, che nel 1955 era con le penne nere a Pinerolo. E penso in particolare all’altro fratello, Vittorio, nato a Pareto nel 1925, che grazie al Cielo non ha ancora “posato lo zaino a terra”, ma che è stato sempre troppo lontano, perché da molti anni è emigrato all’altro capo del mondo, in Australia. La sua storia è la più curiosa.

    Vittorio ha imbracciato le armi nel novembre 1943 come volontario partigiano nel distaccamento “Sambolino” della 6ª brigata garibaldina di Liguria “Nino Bixio”, partecipando anche alla liberazione di Savona, e ha concluso il servizio quasi cinque anni più tardi, come alpino dell’Italia libera e repubblicana. Un alpino molto particolare perché, quasi che il destino avesse posto Garibaldi a suo nume tutelare, dopo il Car a Sacile (Pordenone), il 29 aprile 1947 Vittorio giunge al reggimento Garibaldi, con sede in Firenze, con l’incarico di fuciliere. Ma la sua divisa d’ordinanza è assolutamente singolare: il fregio del cappello è da alpini, ma in metallo e con l’effigie in rosso di Garibaldi nel tondino portanumero. Rossa è anche la cravatta, che resterà la caratteristica peculiare degli appartenenti al reggimento. Le mostrine hanno le fiamme verdi tipiche dei reparti alpini, ma sono sormontate dall’ala e dal gladio oro su fondo azzurro, caratteristica dei paracadutisti del “Nembo”.

    Queste commistioni erano probabilmente frutto dei repentini cambiamenti e accorpamenti dei reparti. Il reggimento alpino Garibaldi raccoglie il testimone dalla Divisione italiana partigiana Garibaldi che combatté in Montenegro. La vicenda dei reduci della divisione Garibaldi non ha però termine con il rientro in Patria. Non appena giunti nel campo contumaciale di S. Andrea di Taranto vengono richiesti, il 16 marzo 1945, di aderire a continuare la lotta contro i tedeschi in Italia. Il 98% firma la domanda di perseverare nella lotta, il risultato dimostra di quale fede fossero animati quei reduci da tante traversie. La Divisione fu allora trasformata in reggimento conservando per qualche tempo le caratteristiche alpine che aveva avuto in Jugoslavia, per il gran numero di ufficiali degli alpini e di artiglieria da montagna che continuarono a prestarvi servizio e per gli altri ufficiali alpini, reduci dalla prigionia o provenienti da unità partigiane operanti in Italia, per aver conservato il cappello alpino, per le denominazioni delle brigate conservate nei battaglioni. Infatti il I battaglione, costituito dalla I brigata di artiglieri alpini del gruppo Aosta, conservò il nominativo di Aosta; il II, costituito dalla II brigata dei fanti della divisione Venezia, conservò il nominativo Venezia, il III, costituito dalla IV brigata formata dai superstiti della divisione Taurinense, ebbe il nome di Torino.

    Nel mese di maggio 1946 il reggimento ritornò nel continente (dopo un periodo in Sicilia), dislocandosi a cavaliere del Passo della Porretta, inquadrato nella divisione Folgore e divenne 182º reggimento di fanteria. La cravatta rossa sostituì il fazzoletto rosso, continuando la tradizione del reggimento Garibaldi. Vittorio si congeda il 30 maggio 1948, proprio pochi mesi prima della trasformazione finale.

    L’Italia uscì prostrata da quell’ultima guerra e il nostro territorio, già costituzionalmente povero, fatto di boschi e magre colline di sfatta arenaria, esposto alle bizzarrìe del clima appenninico che impedisce lo sviluppo di più pregiate colture, non aveva le risorse necessarie per una ripresa dignitosa. Così che molti dei nostri giovani, mio fratello Vittorio compreso, scelsero la via dell’emigrazione. A quel tempo, un’agenzia per l’occupazione di Melbourne, in Australia, aveva fatto pervenire nei nostri paesi le sue allettanti richieste di manodopera. Vittorio e un suo caro amico di Spigno Monferrato, Agostino Curto, colsero al volo l’occasione e si imbarcarono a Genova il 28 giugno 1952 sul Neptunia, diretti in quella metropoli. Il viaggio per mare durò circa un mese.

    Al loro arrivo vennero alloggiati per alcuni giorni a cura dell’agenzia, sino all’arrivo di Mr. Bry, grande proprietario terriero, il loro nuovo datore di lavoro. La destinazione era una località molto lontana da quella città, in una fattoria al centro di una grande tenuta di boschi e praterie, con diversi allevamenti ovini e bovini. La loro nuova occupazione consisteva principalmente nel sorvegliare mandrie e greggi. Colt, fucile e un cavallo da montare erano le loro nuove attrezzature; i cani pastori erano i loro più fidi assistenti. Tra i compiti più impegnativi vi era la caccia a dingo e conigli selvatici, che, rispettivamente, predavano agnelli e vitellini, e sottraevano erba ai pascoli. Poi, a vendita avvenuta dei capi di bestiame, occorreva condurli, sempre a cavallo, alla stazione ferroviaria, per l’incarrozzamento e l’inoltro a destinazione.

    Questo lavoro andò avanti così, per circa tre anni, fino a quando Vittorio cadde da cavallo e si ruppe una spalla. Venne ricoverato in ospedale a Melbourne, e il suo amico onnipresente ad assisterlo. Si presentò loro una nuova, migliore occupazione presso le ferrovie di Stato. Incominciò un periodo buono e propizio per far progetti sul futuro. Sia Vittorio che Agostino comprarono casa, una di quelle di tipica fattura anglosassone: graziosa, su un unico piano, con il giardino tutt’attorno, la staccionata a dividerla dal vicino, l’erba verde sempre tosata e curata. Maria, sua storica fidanzata di Pareto, lo raggiunse e lo sposò. Arrivò una figlia, Miranda e poi un nipote, Lance.

    Oggi Vittorio, bisnonno di due bellissime bimbe, è in buona salute ed è ospitato in una confortevole residenza per anziani. Ogni giorno riceve la visita dei famigliari; la struttura gli ha permesso di coltivare un piccolo orto, continuando così a praticare il suo hobby preferito. Mi consola saperlo in buona salute, nonostante la sua veneranda età, e che pure lui legga appassionatamente L’Alpino, cosa che, almeno col pensiero, ci unisce ancor di più.

    Attilia Borreani