La vita di Martino

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    Martino Farinetti è nato ad Orsara Bormida (Alessandria) il 2 luglio 1921. Primogenito di Sebastiano e Rosa Varosio, ha due fratelli viventi, uno nato nel 1934 e l’altro nel 1940; altri due fratelli gemelli e una sorella sono morti di meningite da piccoli. Frequentò la scuola ad Orsara e dopo aver ottenuto la licenza elementare vi rimase per altri due anni, perché era ancora giovane per trovare lavoro. A quindici anni un prete di Castelnuovo Bormida, don Cunietti, lo accompagnò a Savona dai Frati Carmelitani Scalzi e venne assunto come aiutante cuoco.

    A Savona si trovò bene e vi rimase tre anni. Poi venne la chiamata alle armi… «Entrai in servizio nel gennaio 1941, destinazione Chiusa Pesio (Cuneo), sede del battaglione alpini Pieve di Teco, divisione Cuneense, reparto composto prevalentemente da ragazzi liguri. Dopo poche settimane, mentre mi trovavo al campo invernale, ricevetti la triste notizia che mio padre era mancato. Riuscii a rientrare a casa, ma non in tempo per assistere al suo funerale e nei mesi successivi, che divennero anni, ebbi sempre il pensiero ricorrente di mia mamma sola con due bimbi piccoli. Nel maggio 1941, mi chiamarono in fureria per propormi di fare l’attendente al tenente cappellano del battaglione, don Giuseppe Vallarino, ed io accettai. Il tenente era di Celle Ligure (Savona), era una bravissima persona e una volta terminate le incombenze giornaliere mi lasciava libero.

    Nel maggio 1942 andammo a Cuneo, Eravamo accampati nei pressi del torrente Gesso e con tutti i reparti della Cuneense sfilammo in città davanti al Re. Ero giovane, avevo appena compiuto ventuno anni. Pochi giorni dopo partimmo per la Russia, bisognava andare e basta. Ubbidimmo in silenzio, così imponeva il Fascismo. Sui vagoni ferroviari spiccava la scritta ‘cavalli 8 – uomini 40’. In Russia non mi sono trovato male, dopo aver marciato per giorni ci siamo accampati in un bosco e per prima cosa abbiamo costruito i rifugi. La terra era morbida e non fu difficile scavare fino a tre metri; tagliammo i rovi con la scure e li utilizzammo per costruire il tetto. Poi ci spostammo sulla riva del fiume Don, in prossimità della grande ansa: ci ordinarono di fermarci lì, di non muoverci. Eravamo in un boschetto appena sopra il fiume.

    Costruimmo altri rifugi, trascorrevamo molto tempo sotto terra, i russi non ci disturbavano, erano tranquilli. Ogni tanto, di notte, sentivamo tremare la terra dai bombardamenti in direzione di Stalingrado ma noi eravamo lontani, sentivamo solo il rumore. Arrivò l’inverno ma nei rifugi si stava al caldo, sino al 17 gennaio 1943 quando ricevemmo l’ordine di ripiegamento: abbandonammo le nostre postazioni sul fronte del Don e raggiungemmo Topilo. Alla sera successe un episodio per me decisivo: venni incaricato di distribuire il cognac, ma ne bevvi abbastanza da stordirmi. Il tenente Vallarino comprese la situazione e mi consigliò di fermarmi lì per la notte.

    Lui e gli altri invece ripartirono e non li vidi più. Il giorno dopo mi incamminai con altri soldati seguendo un’enorme colonna. Incontrai tre ragazzi del mio paese, chiesi a uno di loro se era proprio lui: c’erano tormente di neve così spaventose che non ci riconoscevamo l’un l’altro. Non lo vidi più, né lui né gli altri due. Che disastro è la guerra! Ho camminato sempre in mezzo alla neve, giorno e notte; in quel periodo nevicava continuamente e c’era una grande confusione, eravamo mescolati con soldati ungheresi e altri, in assenza di comandanti ognuno di noi andava per conto suo, se ti fermavi eri spacciato. Ho fatto la Ritirata con Luigi Bistolfi di Ponzone (Alessandria), era anche lui del mio battaglione e ci incoraggiavamo a vicenda; seguivamo la colonna e ogni tanto incontravamo un focolare improvvisato accanto al quale c’erano muli o cavalli morti, alcuni tagliavano un pezzo di carne e cercavano di mangiarlo. Non c’era nulla, solo tanta neve. Un paesaggio vuoto e immenso.

    Ogni tanto trovavamo un po’ di miglio e qualche patata nascosta sotto terra. C’erano delle mucche che vagavano, un giorno per alleviare la fatica, io e Bistolfi ne abbiamo bloccata una e a turno, uno la cavalcava e l’altro afferrava la coda e si faceva tirare. In quei giorni non mi sono mai trovato di fronte a soldati russi, sapevamo che loro ci inseguivano e di notte sentivamo in lontananza gli spari della katiuscia. Purtroppo ho visto tantissimi soldati morire assiderati, avevano i piedi congelati o la dissenteria, si fermavano e chiamavano ‘mamma, mamma, mamma…’ erano tutti giovanissimi. Il mio fisico forte mi ha aiutato, ho avuto la fortuna di non ammalarmi. Dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri siamo arrivati a Gomel nel marzo 1943, eravamo mescolati con soldati di altre nazionalità e soffrivamo, mancava tutto. Ci radunarono per rimpatriarci, partimmo in treno e sui vagoni c’era la solita scritta: ‘cavalli 8 – uomini 40’.

    Quando sono tornato in Italia dalla Russia la gente che incontravo mi diceva che ero matto, nessuno voleva credermi quando raccontavo cosa era successo. Sono stato poi convocato al Distretto militare di Alessandria e mi sono stati chiesti i nominativi di coloro che avevo visto in Russia, sia vivi che morti, purtroppo morti ne avevo visti tanti ma i loro nomi non li conoscevo. Anche i parenti di chi non era tornato mi cercavano per chiedere e per sapere dei loro ragazzi e non era semplice rispondere dopo tutto quello che avevo passato. Nella primavera 1943 fu ricostituito il battaglione e nell’estate ci inviarono in Alto Adige, a Chiusa d’Isarco. Il 9 settembre siamo stati catturati dai tedeschi, non abbiamo avuto scampo, la gente del posto collaborava con loro e non potevamo fuggire. I tedeschi ci hanno condotto prima ad Innsbruck, poi sino a Königsberg sul Mar Baltico.

    Lavoravo nei campi di patate. Eravamo maltrattati in quanto non considerati prigionieri di guerra e quindi non tutelati dalla Convenzione di Ginevra. Eravamo Imi (Internati Militari Italiani), secondo quanto deciso dai gerarchi nazisti che ci vedevano come ‘traditori’. Ricordo che eravamo una sessantina nella baracca del nostro campo di prigionia, in condizioni igieniche precarie per cui molti si ammalavano. I tedeschi ci davano una misera razione giornaliera, un pezzo di pane, dieci grammi di margarina, un po’ di tabacco e per sopravvivere, visto che non fumavo, scambiavo il tabacco con i fumatori in cambio di pane e margarina. Durante la prigionia ci chiesero di passare alla Repubblica Sociale Italiana ma pochissimi accettarono, io e molti altri rimanemmo nei campi.

    Eravamo all’oscuro di tutto, non arrivavano notizie, dovevamo solo lavorare e tacere. Per mesi fui obbligato a lavorare nelle officine di riparazioni ferroviarie in Germania e di notte il terreno tremava per via dei bombardamenti alleati. Nella primavera 1945 finì la guerra, una mattina ci alzammo e i tedeschi erano scomparsi, i russi ci avevano liberati e ci fecero accampare in una foresta accanto al fiume Elba dove trascorremmo alcuni mesi nell’incertezza, poi però arrivarono gli americani che ci presero in consegna e ci fecero tornare in Italia con una loro tradotta. Con il ritorno ad Orsara è ripresa la mia vita, mi sono sposato e ho avuto quattro figlie. Ho fatto il contadino per tutta la vita e solo da poco tempo frequento il bar del paese, ne approfitto, ormai non posso più permettermi di aspettare.

    Nel dopoguerra avevo la sensazione che nessuno volesse ascoltare quanto mi era successo in Russia e in Germania, soprattutto ai più giovani non interessava, erano avvenimenti da non ricordare, a cui non pensare. Poi ho trovato ascolto negli amici alpini di Orsara che nell’ottobre 2018 mi hanno accompagnato al Col di Nava (Imperia), al sacrario della divisione Cuneense: non ci ero mai stato. Ho visto la lapide con il nome di don Vallarino, Medaglia d’Argento al Valor Militare, deceduto nel campo di Oranki nel marzo 1943.

    Sono sereno e sono pronto per quando sarà la mia ora, ma ancora oggi penso ai fatti che vi ho raccontato. Quando prendo il caffè lo correggo sempre con un po’ di cognac, in ricordo di quella sera, quando mi portò fortuna cambiando le sorti della mia vita».

    Guido Galliano