La macchina e il cuore

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    Occupandomi da sempre di comunicazione, cerco di aggiornarmi su ciò che sta accadendo intorno a me e su quali potranno essere gli esiti di una tecnologia digitale inarrestabile. Ne dobbiamo prendere atto: la cultura del libro (non i libri ovviamente) è finita da tempo e quella digitale ha preso il suo posto. Ne sa qualcosa chi ha la mia anagrafe. Muoverci tra internet, Twitter, Facebook, Instagram… non è il massimo delle nostre prestazioni. Siamo immigrati digitali, esattamente come quelli che entrano in un Paese straniero e devono parlare una nuova lingua, che non è quella che hanno appreso col latte materno. 

    Abbiamo i nostri giornali di Sezione e quello nazionale pubblicati in pdf sui nostri siti, ma abbiamo ancora bisogno di toccare la carta, sfogliare piano piano le pagine, per sentirne il profumo, guardare le immagini, provare l’emozione del vedere, toccare, odorare. Leggo da un resoconto scientifico che Google ha creato l’intelligenza artificiale. Trenta chip sovrapposti, come trenta strati di una torta, ognuno dei quali in grado di riconoscere infinite variabili possibili. Fino a trenta milioni. Uno riconosce le forme, uno i tratti somatici, uno dà i nomi, uno registra le infinite reazioni emotive… Provate a immaginare quale intelligenza umana potrebbe competere con un simile patrimonio di conoscenze. Roba da perdersi solo a descriverla.

    Vi dico solo che con questa intelligenza artificiale è stato battuto il campione mondiale di Go, un complicatissimo gioco da tavolo. Nei prossimi anni questi cervelli artificiali sostituiranno l’uomo. Si parla già di 22 milioni di posti di lavoro in meno nell’immediato. Ma siamo solo all’inizio. Scrivo queste considerazioni e immagino le facce stranite dei lettori.

    Cosa c’entra tutto questo con gli alpini? E soprattutto cosa può interessare agli alpini, abituati alle cose essenziali, a incontrarsi dentro una baita, dove ci si sveste della complessità, per ritrovare il sapore della fraterna convivialità? C’entra, c’entra, cari lettori. Almeno per due ragioni. Si sa bene che noi alpini abbiamo una storia alle spalle, una storia da raccontare e da tramandare. Una tradizione equiparabile a un patrimonio immobiliare di sconfinato valore.

    La vita mi ha insegnato che chi subentra ai padri fondatori o fa l’erede, o fa l’idiota. Erede è colui che mette a frutto, idiota chi sperpera l’eredità. Sentirci eredi responsabili del nostro patrimonio, e non idioti, ha le stesse logiche di chi eredita un’azienda. Come stare al passo dei tempi per farla girare a pieno regime? Analogamente, cosa fare nel tempo della cultura digitale, perché le nuove generazioni siano contaminate dai valori del nostro passato? Non si tratta soltanto di mettere dentro alle macchine della nuova tecnologia alcune informazioni, quanto di capire che dobbiamo parlare il linguaggio del presente se vogliamo essere ascoltati.

    Alle nuove generazioni non è sufficiente raccontare le vicende della Grande Guerra, se poi non riusciamo a portarle sui suoi scenari. E per essere ascoltati da esse dobbiamo parlare la loro lingua. Ma c’è una seconda ragione che ci obbliga a riflettere su questi temi, anche se sembra smentire quanto affermato poco sopra. Ed è il fatto che gli alpini devono conoscere i linguaggi che mutano, ma devono essere soprattutto gli alfieri di una umanità che non cambia.

    Gente consapevole che nessuna intelligenza artificiale ci regalerà mai un sorriso, una parola di consolazione, un cappello sopra la bara e una lacrima furtiva, ci offrirà un pezzo di pane e un bicchiere di vino. Non ci regalerà mai un canto, capace di orlare la vita di cordialità. Nessun artificio ci darà mai il profumo dell’umanità.

    In un mondo attraversato dalla logica delle macchine, nulla potrà sovrastare il fascino della creatura. Il calore del cuore umano, di cui gli alpini sono depositari e testimoni