La ferita aperta

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    Il 10 febbraio, com’è ormai virtuosa consuetudine, si commemorano i tragici eventi delle foibe e dell’esodo accaduti durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Conseguenza della sconfitta dell’Italia che ha comportato la perdita della quasi totalità delle acquisizioni territoriali ottenute con la guerra precedente, l’Istria, Fiume e la Dalmazia.

    Ciò comportò l’esodo di circa 300mila persone che volevano conservare vita, identità e libertà messe a rischio dal comunismo jugoslavo trionfante. Il 10 febbraio è stato scelto perché quel giorno, nel 1947 a Parigi con il trattato di pace si sancì la totale sconfitta italiana. Nonostante la ricorrenza sia frutto della legge 30 marzo 2004 n. 92 (“legge Menia”, dal nome del proponente), molte sono ancora le reticenze e le mistificazioni di natura ideologica che negano la legittimità di tale ricordo in quanto si sostiene che sia una conseguenza delle colpe dell’Italia fascista che nel 1941, sulla scia della Germania nazista, invase la Jugoslavia che aveva ribaltato le alleanze precedentemente sottoscritte.

    Contrariamente all’opinione dei negazionisti i fatti sono ben diversi; e ben poco hanno a che fare con una mera vendetta. Il fenomeno delle foibe, cavità naturali nelle quali vennero gettate nel modo più brutale e arbitrario migliaia di persone, unì nazionalismo slavo e ideologia comunista, con la guida di Tito. Ciò si manifestò dapprima in Istria nel settembre-ottobre del 1943 e poi, nel maggio del 1945, nella Venezia Giulia e rappresentò l’apice di un accumulo di tensioni etniche e sociali che durava da più di un secolo.

    Non fu una risposta alla repressione fascista bensì una strategia ispirata dal “terrore” staliniano mirante a eliminare il nemico di classe e ad annettere un territorio ripulito etnicamente e ideologicamente. Gli scritti del compianto storico fiumano William Klinger (brutalmente assassinato a New York nel 2015) hanno chiaramente messo in luce tale meccanismo che cercava di decapitare la classe dirigente italiana, compresi gli antifascisti che si opponevano all’annessione jugoslava; così accadde anche per molti sloveni e croati anticomunisti.

    Un sistema di dominio già ben sperimentato nella russa Katyn dove i sovietici, nel 1940 ancora legati alla Germania nazista con il patto Molotov-Ribbentrop, sterminarono migliaia di polacchi (si dice 22mila) servendosi delle fosse presenti sul territorio; dunque le foibe istriane furono la continuazione di quel sistema di eliminazione del nemico nazionale e ideologico. Considerando tutta la Venezia Giulia le stime variano considerevolmente (svariate migliaia di vittime) anche perché spesso si usa il termine “infoibati” in senso generico, considerando anche altre modalità di persecuzione e soppressione di cui nemmeno si conoscerà mai l’entità ma le cui motivazioni sono state le stesse.

    Il luogo simbolo di tale tragedia è rappresentato dalla foiba di Basovizza, nei pressi di Trieste, mentre dal punto di vista umano essa si incarna nel martirio della ventiquattrenne Norma Cossetto, violentata ripetutamente da numerosi partigiani jugoslavi e gettata orrendamente mutilata in una foiba il 5 ottobre 1943. La vicenda della giovane istriana, già Medaglia d’Oro alla memoria grazie al presidente Carlo Azeglio Ciampi, due anni fa è stata ricordata nel film “Red land” del regista Maximiliano Hernando Bruno; anche se il capolavoro che ha reso finalmente universale lo strazio di questi eventi è stato lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” di Simone Cristicchi.

    Le successive diatribe diplomatiche tra le Potenze vincitrici sulla definizione dei confini e la feroce politica jugoslava nei confronti degli italiani comportò un esodo che disperse un intero popolo in Italia e nel mondo. Le foibe e l’esodo, allora, assurgono a simbolo doloroso, insieme con la triestina Risiera di San Sabba, luogo emblematico della barbarie nazista, della follia a cui è potuto giungere un secolo ideologico quale il Novecento, che ha visto sacrificare alle opposte rivoluzioni milioni di “dissidenti”.

    La “memoria” (27 gennaio) o il “ricordo” (10 febbraio) devono essere, dunque, onorate entrambe con rispetto perché il silenzio su l’una o l’altra storia comporterebbe la riapertura di antiche conflittualità mettendo a rischio il futuro della comune casa europea.

    Diego Redivo