La colpa di essere nati

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    Si dice pienamente ricompensata dalla vita Liliana Segre nel suo incontro con duemila ragazzi riuniti al teatro Arcimboldi di Milano. Una narrazione delicata, lucida, sconvolgente raccontata come una storia orribile, un girone dantesco inimmaginabile capace in qualche modo di elevare i sopravvissuti. All’odio e alla ferocia degli uomini di Hitler, l’animo dei detenuti risponde dapprima con rassegnazione e infinito attaccamento a un’esistenza ridotta allo zero poi, aperti i cancelli e ritrovata la libertà, si fa largo la pietà che sconfina nel desiderio di pace.

    Nella compostezza del racconto la Segre indica i punti cardinali della sua esistenza e li riconsegna ai ragazzi attraverso la forza di parole come amicizia, dignità, pietà; per un tredicenne d’oggi un passato ormai lontanissimo, ritrova consistenza e diventa attuale grazie alla modernità del messaggio. «Quarantacinque anni di silenzio, incapace di trovare le parole e la forza per fare il mio dovere di testimone. Ci sono riuscita nel diventare nonna, avevo sessant’anni. Allora ho capito che non potevo più aspettare».

    Nel 1938 le leggi razziali che la costrinsero a lasciare la scuola, dopo la prima e la seconda elementare. Nata e cresciuta a Milano in una famiglia ebraica laica, la piccola Liliana si domandava «Perché? Tormentavo i miei familiari, perché? Cos’ho fatto di male? Ero stata espulsa. Ero nata ebrea e mi veniva dato questo castigo. Cominciavo a vedere intorno a me quell’indifferenza da cui non sono mai guarita come una malattia che si porta dentro tutta la vita. L’indifferenza della mia maestra, delle mie compagne di scuola che non notarono nemmeno la mia assenza. Eppure io ero uguale a loro, cosa avevo di diverso? Quando mi incontravano per strada mi vedevo segnare a dito: ‘Quella lì è la Segre non può più venire a scuola perché è ebrea’. Una sola parola capace di segnare la diversità, di tracciare un confine difficile da superare. Cominciò così una vita diversa, leggevo negli occhi di mio padre e dei miei nonni una sofferenza enorme, la paura del futuro. Accanto pochissimi amici, con la a maiuscola, non quelli della baldoria, ma quelli che ti stanno vicino e ti amano quando sei ammalato, quando sei povero, quando non sei di successo, quando non sei nessuno. Furono pochissimi, ma eroici».

    Anni duri: all’emarginazione seguirono le prese in giro, le barzellette, l’atteggiamento di prepotenza nei confronti di coloro che sono in disgrazia e infine la persecuzione. «Gli amici furono necessari per non avere ricordi che non fossero solo tragici, furono necessari per continuare a sperare, per capire che l’essere umano è variegato in mille modi. Era proibito nascondere un ebreo, anche un neonato o un vecchio malatissimo, la pena era la fucilazione. Io fui nascosta in due famiglie e non fui nemmeno gentile con loro, non capivo quello che stavano facendo per me queste eroiche persone e ogni volta che mio padre tra mille pericoli veniva a trovarmi lo supplicavo: ‘Papà non stiamo più qui, andiamo in Svizzera, scappiamo! Io non voglio più stare separata da te’. E mio papà, povero disgraziato, perdente, sensibile, meraviglioso, era un padre fantastico, ma anche un figlio straordinario. Non sapeva come lasciare i suoi genitori, il nonno malatissimo con il morbo di Parkinson. Si diede molto da fare e riuscì a farsi rilasciare un permesso dal questore di Como affinché i nonni potessero rimanere nella loro casa, erano troppo vecchi per nuocere al grande Reich tedesco. Ma nel maggio 1944 furono deportati, giunti ad Auschwitz vennero gassati e bruciati solo per la colpa di essere nati».

    Liliana e il papà Alberto insieme a due cugini anziani, nel dicembre 1943 fuggirono tra le montagne e riuscirono a raggiungere la Svizzera. Ma vennero espulsi, l’ufficiale svizzero tedesco decise che li avrebbe respinti. «Capii che la mia felicità, la mia euforia, la mia sicurezza venivano calpestate, ignorate, addirittura punite da questo personaggio indimenticabile del quale però non ho mai voluto conoscere il nome.

    Un assassino che condannò a morte quattro persone. Solo io sono tornata a raccontare, non mi importa di sapere il nome di costui. Non volle sentire ragioni, né suppliche, né pianti. Io mi buttavo ai suoi piedi, mi aggrappavo alle sue gambe lo pregavo, piangevo, ma lui rimase immobile e disse ‘siete degli impostori, non è vero quello che succede in Italia, siete qui perché qui non c’è la guerra, ve la volete passare tranquilli’. Ci rimandò indietro con le guardie sogghignanti verso quella rete da dove eravamo passati la mattina. Ci riprovammo, toccai un cancello sperando che non fosse chiuso e suonò l’allarme.

    Allora fummo arrestati, finimmo nel carcere a Varese, poi a Como, infine a San Vittore per 40 giorni. Abbracciavo mio padre dopo gli interrogatori, dopo le torture. Ero il suo conforto, mostravo verso di lui un senso di protezione». Incalza la Segre e si rivolge ai giovani: «Ragazzi, c’è una cultura oggi che vi vorrebbe sotto una teca perché deboli, problematici. Io da nonna vi voglio dire che siete fortissimi.

    Avete tutta quella forza della gioventù che prorompe in voi, siete più forti dei vostri genitori. Siate un sostegno per loro che possono avere mille problemi». Poi il ritorno al racconto, al lungo viaggio verso Auschwitz, stipati in un vagone con un po’ di paglia e un secchio per i bisogni. In quel viaggio partirono in 605 e tornarono in 22. Il 6 febbraio del 1944 raggiunsero la destinazione. Vennero divisi gli uomini dalle donne, le guardie promisero loro che si sarebbero ritrovati la sera dopo il lavoro.

    Ma non fu così, Liliana non rivide mai più suo padre. «Diventai un lupo. Sola senza più nessuno, mi aggrappai alla vita. Sarei potuta morire in un secondo se mi fossi buttata contro i fili elettrificati che cingevano il campo. Ma non lo feci. Tutti scegliemmo la vita, scegliemmo la vita! Parola importantissima che non va sprecata e non va mai dimenticata nemmeno per un attimo. Non bisogna perdere neanche un minuto di questa straordinaria emozione che è la vita. Perché nel tic-tac del tempo che scorre, il tic è già tac».

    A gennaio del 1945 dopo la marcia della morte che Liliana Segre definisce invece “la marcia della vita, una gamba dopo l’altra, senza mai cadere, senza mai arrendersi”, giunse in Germania nel campo di Malchow. «I carcerieri si mostravano sempre più nervosi, avvertivamo che qualcosa stava per accadere. Un giorno da lontano vedemmo un gruppo di soldati francesi prigionieri, ma ancora in forze. Ci guardarono e ci chiesero ‘ma voi chi siete?’, ‘Siamo ragazze’. Così, vestite a righe, sporche, piene di croste, ridotte pelle e ossa non avevamo più sembianze umane, “senza capelli e senza nome, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno” (Se questo è un uomo, Primo Levi). Ebbero pietà di noi, furono i primi dopo tanto tempo: ‘Poverine’ dissero e quella parola giunse come una rugiada celeste. ‘Poverine, non morite proprio adesso! La guerra sta per finire. Da una parte arrivano i russi e dall’altra gli americani. Non mollate proprio adesso, forza’. Non eravamo più abituate alla gioia». Nessuna parola detta con livore, nessun capo di accusa, nessuna forma di odio o di vendetta nel racconto della senatrice a vita. Quando si aprì quel cancello a maggio del 1945, Liliana imparò per la seconda volta il significato della libertà.

    Raccolse un mazzetto di fili d’erba che erano cresciuti verdi in mezzo a quel grigiore, li portò alla bocca, provò a masticarli ma i denti dondolavano. Allora li succhiò e sentì il sapore della clorofilla, della vita che ritorna. Poi alzò gli occhi e riconobbe una delle guardie, era in mutande. Si spogliava della divisa per indossare abiti borghesi e fuggire dai russi. Gettò via anche la pistola che cadde proprio ai piedi di Liliana.

    Per un anno e mezzo, una bambina sola, costretta ai lavori forzati, privata di tutto, abbandonata in un luogo sconosciuto, si era aggrappata alla vita ed era sopravvissuta: «Vidi la pistola e pensai, ora lo uccido. Mi sembrava il giusto finale per quello che avevo sofferto. Ma poi capii che non ero come quegli assassini, non avrei mai potuto uccidere nessuno. E mentre la tentazione era fortissima, la più grande che ho avuto nella mia vita, non raccolsi quella pistola. E da quel momento – ha concluso la Segre – sono diventata quella donna libera e di pace che sono anche adesso».

    Mariolina Cattaneo