Il 10 febbraio 1947 i vincitori della Seconda guerra mondiale imposero all’Italia di cedere alla Jugoslavia l’Istria, Fiume, Zara, la Dalmazia, il Carso triestino e goriziano e l’alta valle dell’Isonzo, oltre a forti risarcimenti per danni di guerra. Una clausola del trattato di Parigi concedeva agli abitanti di quelle terre la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, con l’obbligo di trasferirsi in Italia entro un anno dalla data di esercizio dell’opzione. In apparenza, quindi, l’esodo fu conseguenza di un democratico diritto di opzione, ma in realtà moltissimi fuggirono prima o dopo, quando le frontiere erano chiuse, a rischio della propria vita, fuggendo con ogni mezzo, traversando a piedi le frontiere in punti boscosi o di montagna poco presidiati, traversando l’Adriatico in barca, pur di sottrarsi al pesante clima intimidatorio dei titini nei confronti degli italiani. Le domande di opzione venivano gestite con aperte violazioni: chi se ne andava non poteva portare con sé denaro o beni mobili e gli immobili venivano requisiti, nazionalizzati e considerati parte dei risarcimenti per danni di guerra che l’Italia doveva alla Jugoslavia. Fu un drammatico esodo di massa, con la disintegrazione di una intera struttura sociale: 340mila persone abbandonarono le loro città, le case, il lavoro, gli affetti, le amicizie al solo scopo di mantenere la propria identità nazionale e la libertà di pensiero, stampa, religione e si trovarono stranieri in Patria, costretti a ripartire da zero, con il difficile inserimento in una vita normale. Non per niente noi profughi ci vantiamo di essere due volte italiani: una per nascita e una per scelta. Ricordo i primi due anni in uno sperduto paesino ligure, in una minuscola casetta composta da una stanza e cucina, senza servizi (si usava il prato fuori), ed era sempre meglio che vivere in un campo profughi. Poi il graduale rientro alla normalità, ma ancora oggi mi trovo a pensare a quanto hanno sofferto i miei genitori e li ringrazio nel profondo del cuore per la scelta che hanno fatto e per il futuro che mi hanno regalato. E mi viene in mente quella meravigliosa canzone di Sergio Endrigo, anche lui esule da Pola, intitolata “1947” (l’anno dell’esodo): “…è troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più mi riconoscerà; come vorrei essere un albero, che sa dove nasce e dove morirà”.
Norberto Ferretti
Caro Norberto, la tua lettera dice cose che tanti hanno detto, ma le dice con una chiarezza e compostezza, che obbligano a entrare dentro ai sentimenti di chi ha vissuto quella vicenda. Ed è la tua compostezza, senza le sbavature emotive ed aggressive di chi si aspetta qualche rivincita, che le merita rispetto e condivisione.