Io, prete, difendo gli alpini

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    Cari amici, lo scorso mese di novembre, si “consumava” l’ennesima scaramuccia tra il celebrante di una liturgia funebre e gli alpini presenti alla cerimonia, per rendere omaggio ad un alpino “andato avanti”. In quella occasione il “Corriere della Sera”, edizione veneta, mi chiedeva un pezzo a commento. 

     

     

    “Sarebbe interessante capire cosa passi nell’immaginario di qualche prete davanti alla realtà degli alpini. L’ultimo episodio accaduto nel vicentino, con tutto lo strascico di polemiche che gli sono succedute, fa pensare che non si tratti soltanto di qualche dettaglio formale riguardante la liturgia. Episodi sempre più ricorrenti lasciano pensare che qualcosa si stia incrinando in quel rapporto quasi simbiotico, che da sempre ha segnato il rapporto tra la chiesa e gli alpini in congedo.

    Un rapporto per il quale le penne nere hanno sempre riconosciuto nel Vangelo e nella Chiesa la sorgente dei loro valori ideali, quelli della fraternità, della solidarietà e della gratuità, nonché l’amore per la famiglia e per la Patria.

    È un dato di fatto che l’Ana è l’unica associazione d’arma esistente al mondo, che non apre mai una propria manifestazione senza la celebrazione della Messa. Non c’è occasione in cui non si inizi da lì, dall’invocare Dio, sapendo che solo da Lui si può essere «armati di fede e di amore» come recita la Preghiera. E allora perché insinuare in questo rapporto, così umanamente e spiritualmente complice, il tarlo di una crescente diffidenza?

    L’alpino se lo chiede senza sapersene dare una ragione. Tanto più che le penne nere, presenti sul territorio nazionale e internazionale, sono abitualmente coinvolte, non solo in occasione delle grandi calamità o di avvenimenti straordinari, ma più semplicemente nel vissuto dei loro paesi di appartenenza, nelle iniziative parrocchiali e in tutti quegli ambiti in cui si dà senza chiedere nulla in cambio. Lo sanno bene moltissimi parroci cosa vuol dire la presenza dell’Ana all’interno della parrocchia.

    Alpini impegnati in opere sociali, nel restauro di ambienti, comprese le chiese, ma anche nell’animazione sociale, così come nelle liturgie funebri, dove esprimono un senso di Corpo non rintracciabile in nessuna altra associazione. Sarebbe interessante chiedersi quanto incidano certe omelie e quanto più incisiva sia la testimonianza corale di questo spirito di Corpo che unisce gli alpini accanto alla bara di chi è andato avanti. Anche il recupero di tale sensibilità andrebbe riletto come una reale testimonianza di Chiesa, in un momento storico in cui assistiamo allo sfilacciarsi della fede di tanti battezzati.

    Non è mettendo un cappello a terra, impedendo di collocarlo sulla bara, che la Chiesa potrà ritrovare una purezza liturgica capace di riavvicinare il popolo. Ma molto più probabilmente facendo in modo che in chiesa ci si senta a casa propria e non ospiti di un padrone che dispone. È vero che spetta al parroco la gestione dell’ambiente e della comunità, ma senza che questo finisca per ripristinare un’idea verticistica di Chiesa.

    La Chiesa è un corpo di membra, tutte con la stessa dignità. Gli alpini non hanno la pretesa di imporre le proprie liturgie laiche o religiose che siano, ma solo di sentire accolta la propria sensibilità. Chiedono di posare il cappello dei loro defunti sopra la bara, così come sulla bara di un prete si pone una stola e un Vangelo, senza che alcun laico gridi all’arbitrarietà. Gli alpini chiedono che qualcuno porti il vessillo o il gagliardetto della propria Sezione o Gruppo di appartenenza, per dire che sono venuti in tanti da tante parti. Gli alpini chiedono di poter recitare la loro preghiera.

    È l’icona della loro storia, la sintesi della loro epopea. Vorrei ricordare l’animo degli alpini con le parole del Beato Carlo Gnocchi: «A voler definire l’animo religioso dell’alpino, bisogna per forza rifarsi al termine e al concetto di pietas. La religione, per questa gente, non è mai un momento o un episodio; è uno stato, una forma, un modo di vita». Quindi, guardando all’opera degli alpini, concludeva: «Tutti hanno compiuto opera veramente sovrumana. Dio fu con loro, ma questi uomini furono degni di Dio».

    Bruno Fasani