Interprete d’umanità

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    Racchiudere in un’immagine la straordinaria figura del beato don Carlo Gnocchi è impresa improba e per nulla soddisfacente. Eppure, tra gli slogan sopravvissuti alla storia, due sembrano sintetizzare più di altri la poliedrica e affascinante personalità di un uomo – e di un prete – che ha fatto la storia del Novecento italiano: santo con la penna alpina e padre dell’infanzia mutilata. Non sono icone poi così distanti. 

     

    Fu nello scontro infernale con il mistero del male e della morte, accanto a quei soldati mandati al macello, vittime degli orrori della guerra, che irruppe quella passione divina per l’uomo, quel fuoco ardente fatto di amore infinito per i più deboli, quel sogno di poter esaltare in un’opera di carità il valore e la bellezza della vita umana che si concretizzò – a conflitto finito – nell’allora Fondazione Pro Juventute.

    Quasi un poema – ha scritto monsignor Aldo Del Monte, vescovo emerito di Novara, cappellano con don Carlo in guerra – pari al poema che la Divisione Tridentina aveva vissuto in Russia per aprire una porta verso casa a centinaia di migliaia di disperati. Non si capisce tuttavia il don Gnocchi dei mutilatini se non lo si vede cappellano tra i suoi alpini, in balia delle diaboliche potenze che danno la morte: la fame, il freddo, il gelo, la ferocia delle armi, la disperazione, la paura. In quelle notti tempestose, dove persino Dio pareva tacere al grido che si levava straziante da quella terra inospitale, don Carlo firmò la cambiale che avrebbe trasformato la sua sopravvivenza in un originale e straordinario ministero per la gloria di Dio e la salvezza degli uomini.

    «Ora comprendiamo – fece dire a un drappello di soldati, in una illuminata vignetta il pittore e alpino Giuseppe Novello – perché tu, don Carlo, non sei morto con noi allora in Russia…». Era nato a San Colombano al Lambro (Milano) il 25 ottobre 1902. Nel 1925 fu ordinato sacerdote e divenne prima assistente d’oratorio per alcuni anni, poi direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Allo scoppiare della guerra si arruolò come cappellano volontario e partì, prima per il fronte greco-albanese e poi – con gli alpini della Tridentina – per la Campagna di Russia, dove si salvò per miracolo. Fu proprio in quei giorni che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, maturò in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità, che trovò compimento, a guerra finita, nella Fondazione Pro Juventute.

    Se non avesse visto il Signore «piegato sotto lo zaino affardellato e ugualmente incolonnato», don Carlo non ci avrebbe lasciato quell’eredità che oggi la Fondazione Don Gnocchi – in 28 Centri e una trentina di ambulatori in Italia e nei progetti di solidarietà internazionale avviati nel mondo – cerca di onorare con fedeltà e impegno, accanto alle persone più fragili. E se don Gnocchi ha visto il Signore fra i suoi alpini, è perché si è fatto interamente uno di loro e li ha guardati come i continuatori della passione e della redenzione.

    Perché chi si mette con l’uomo che soffre e che muore per soffrire e morire con lui, non solo vede il Cristo, ma può farlo accettare da tutti, anche oggi, soprattutto oggi. Sono i valori autentici che don Carlo seppe leggere nell’animo alpino: «Dio, l’anima, la Provvidenza, l’aldilà con la sua chiara e acquietante giustizia per tutti; ce n’è abbastanza per costruirvi saldamente tutta un’esistenza, come su pochi pilastri di roccia gettati nel fiume rapido e insidioso della vita». Le iniziative che accompagnano l’anniversario del sessantesimo della morte ce lo facciano sentire ancora più vicino.

    Gli occhi e il sorriso del beato don Gnocchi siano per tutti sprone, stimolo, sostegno e coraggio per continuare – ciascuno nel proprio ambito – la battaglia quotidiana al servizio della vita.