Il perché di tanta stima

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    Per una volta lasciamo fuori della porta la retorica e facciamoci una domanda. Perché gli italiani amano gli alpini? Perché hanno un bel cappello e sono simpatici? Perché quando fanno i loro incontri seminano un clima di festa e di serenità? Perché hanno dei bei canti, che cori meravigliosi propongono con grandissima professionalità? Perché amano e curano la montagna? Per, per, per…? La risposta è in tutto questo, ma in realtà è molto più semplice. Gli italiani amano gli alpini, perché gli alpini amano l’Italia. E l’amore, come ci insegna la vita quotidiana, non è fatto di slogan.

    L’amore è un profumo, una questione chimica. Lo senti subito se uno ti vuol bene nei fatti o nelle parole, se ti corregge perché ti stima o se lo fa per demolire la tua immagine, se si sacrifica con dedizione, o se tira la carretta per esibizione o sacramentando, non potendo fare diversamente. L’amicizia, come l’amore, sui tempi brevi può barare, ma nel tempo non concede scampo. C’è o non c’è. Una terza ipotesi non è possibile. Gli alpini da oltre un secolo si sono messi al fianco degli italiani.

    Lo hanno fatto negli scenari più disparati. Quelli della guerra, emotivamente più clamorosi e umanamente più devastanti. Ma anche quelli dei tempi di pace, nei drammi delle grandi calamità naturali, nelle missioni all’estero di peace keeping, nella ferialità dei nostri paesi, dove gruppi operosi, come api operaie, portano nettare alla qualità della vita sul territorio. Alpini in armi e alpini in congedo, dove l’Ana fa da grande collettore di questi ultimi, accomunati da un’unica identità di carattere e di vocazione. Ecco perché provo sempre un senso di disagio quando incontro certo storicismo esasperato, come se il valore degli alpini fosse esclusivo dei tempi di guerra.

    Certamente quelli, pur nel rispetto ammirato e riconoscente per il loro eroismo, sono stati degli sfortunati, essendo nati al momento sbagliato con la politica sbagliata. Ma la loro grandezza, senza essere sminuita, va messa insieme alla grandezza di tanti altri alpini che, in tempi di pace successivi e diversi, hanno dato il meglio di sé per il loro Paese. Corre quest’anno il centenario della nascita di Primo Levi, che nell’opera a ricordo della Shoah scriveva: «Considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/che non conosce pace/che lotta per mezzo pane/che muore per un sì o per un no».

    Giusto per dire in quali condizioni di disumanità sia spesso ridotto l’essere umano. Potremmo dire che gli alpini, nella loro storia, hanno sempre cercato di essere uomini a servizio dell’uomo. Sempre. Recentemente la Camera dei Deputati ha approvato la legge 622, con una votazione pressoché plebiscitaria e senza alcun voto contrario, in cui si prevede l’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino”. Qualcuno, più realista del re, ha voluto vedervi un privilegio. Soprattutto in rapporto ai Caduti, che di fatto appartenevano alle varie Armi e non solo alle truppe alpine.

    Ecco, l’equivoco sta proprio qui: credere che si faccia riferimento solo ai caduti in guerra. La legge 622, nelle sue premesse, non pensa solo a loro, ma a tutta l’attività degli alpini, dalla loro nascita fino ad oggi, in ambito militare e civile. Sulla data della Giornata si potrà discutere all’infinito, per evitare malintesi, ma l’essenza della sua ragione di esistere sta tutta in una piccolissima motivazione: gli italiani amano gli alpini, perché gli alpini amano l’Italia. Dalla loro nascita ad oggi. Sempre.

    Bruno Fasani