Il linguaggio dell’arte

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    Forse neppure Pino Baù, di Prova di San Bonifacio (Verona) poteva immaginare quale forza comunicativa contenesse il linguaggio dell’arte. Lui, come noi, abituati a credere che il successo della vita dipenda dal percorso scolastico. A lui la scuola proprio non piaceva. Un po’ di avviamento dopo le elementari e un titolo di terza media, conseguito da privatista, ma, più che altro per mettere a posto le carte per garantirsi il lavoro.

     

    Un lavoro che comincia da caldaista in fabbrica per nove anni. Giornate silenziose, umili, una in fila all’altra come se il tempo non avesse con sé alcuna novità. Eppure dentro l’animo di Pino c’è un patrimonio dal linguaggio forte, che domanda di venire allo scoperto con prepotenza. Troverà la strada per uscire attraverso le bacchette di una batteria. A lui, omino minuto e riservato, bastano due piatti e qualche tamburo su cui scatenarsi, per raccontare al mondo la sua vitalità interiore.

    Se ne accorgeranno al momento della naja tra gli alpini. Car a Cuneo, poi a San Candido nel battaglione Bassano. Era intimorito all’arrivo, in quello che gli avevano descritto come un inferno. Si troverà invece magnificamente. Ed è proprio a San Candido che quel giovane silenzioso viene notato per le sue capacità artistiche in campo musicale.

    Il salto a Bressanone nella fanfara della Tridentina è automatico. Ma non è solo la musica a catalizzare i suoi interessi. Pennello e colori sembrano trasferire sulla tela le note emesse dalle bacchette sulla batteria. Gli mettono a disposizione una stanza e il materiale per esercitarsi, giusto per agevolare il risveglio del poeta che il ragazzo si porta dentro. Poi, a chiusura di un capitolo intenso e gratificante, Pino ritorna a casa da congedato. La terza media gli consente un posto da bidello tuttofare.

    C’è la famiglia da crescere e il posto sicuro gli appare come la più importante benedizione. Oltretutto gli consente qualche ritaglio di tempo per continuare a dipingere. Che l’uomo abbia talento se ne accorge un altro pittore della zona. Il quale suggerisce al nostro artista di cambiare genere. La piazza è troppa piccola per garantire il pane a due pittori. Baù, uomo mite e versatile, prende il consiglio con la filosofia degli umili e si mette a scolpire. Inizia con la terracotta. I lavori si fanno sempre più precisi, richiesti e apprezzati.

    Addirittura c’è chi comincia a farne il calco e a commercializzarli a sua insaputa. Magari un altro, al suo posto, sarebbe andato a presentare denuncia. Pino Baù non ci pensa neppure. Se la terracotta si presta alle falsificazioni, lui comincerà ad usare la pietra. La pietra morta dei Colli Berici, o pietra di Nanto, dal nome della località vicentina di provenienza. All’inizio la sua arte si ispira ai soggetti più eterogenei, nudi, cavalli, oggetti naturali… poi l’approdo a soggetti eminentemente religiosi, tanto da essere chiamato il Madonnaro.

    Guarda all’arte povera della Lessinia, quella del 1600, 1700 che ha segnato le terre povere delle pre Dolomiti. Difficile trovare un percorso logico-formale nell’arte di Pino Baù. Prevale l’aspetto intuitivo, ispirato al naturalismo e alla idealizzazione dei soggetti. Ma sarebbe davvero riduttivo affiancare Baù all’arte lessinica. In lui emerge la linearità delle forme e un minimalismo che sa quasi di trasfigurazione.

    Lavora in silenzio ascoltando Radio Horeb dove si intrecciano preghiere e canto gregoriano, quasi che la sua arte dovesse trovare ispirazione da qualcosa che viene da altrove. Ormai le sue opere figurano in tanti posti importanti premiate da vari riconoscimenti. Ma questi non scompongono più di tanto l’alpino Baù.

    Umile, silenzioso, sorridente. Traspare ogni tanto l’ironia che popola il suo animo. Ma è un sorriso benevolo sulla vita, giusto per non prendersi troppo sul serio o per dire al mondo che non sono le cattedre a renderci felici.

    Bruno Fasani

    bruno.fasani@ana.it