Il cuore delle nuove generazioni

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    Vittorio, questo è il mio nome. Ovviamente non l’ho scelto io, ma i miei genitori, che sempre mi hanno raccontato di avermelo dato perché era quello di un mio bisnonno a cui erano legati da grande affetto e stima. Non l’ho mai conosciuto di persona, ma ricordo che la prima volta che lo vidi fu in una foto sulla tomba di famiglia: un viso anziano, sereno e sorridente, sotto uno strano cappello con la penna che spronò la mia curiosità e le mie domande. Il papà mi rispose: “Era un alpino”.

     

    Oggi sono più grande, la mia Treviso in questi giorni si sta riempiendo di cappelli con la penna per l’Adunata del Piave, mentre a scuola studiamo le guerre mondiali. La nonna mi ha portato anche molte vecchie foto in bianco e nero e il papà mi racconta delle storie dicendomi che sono le stesse che gli raccontava nonno Vittorio alla mia età. Storie che prima il bisnonno aveva solo sfiorato o taciuto, ma che voleva che il suo primo nipote ascoltasse. Perché non si perdessero, perché gli fossero di monito, o solo per trasmettergli una sensazione di quelle esperienze che, diceva, “mi hanno insegnato tutto della vita”. Era un giovanissimo sottotenente, aiutante maggiore del battaglione alpini Verona. Arruolatosi pieno di entusiasmo, nel 1939 combatté sul fronte francese, visse i primi dubbi nella Campagna di Grecia e sopravvisse alla tragedia del fronte russo, dove venne anche decorato con una Medaglia d’Argento al Valore Militare. Medaglia che considerò sempre come una sciocca patacca. Poi arrivò l’8 settembre del 1943, che portò molti suoi compagni alla lotta partigiana e lui alla prigionia in Germania. Eh sì… la Campagna di Russia. Ne abbiamo parlato a scuola. Abbiamo saputo di don Gnocchi, il cappellano della Tridentina, che poi era proprio la Divisione di nonno Vittorio. Di conseguenza, le parole dell’insegnante si sono un po’ mescolate con i racconti di papà e con le pagine di memorie raccolte in un libro dal bisnonno. Circondati sulle rive del Don, entrambi hanno cercato la via per l’Italia camminando sulle stesse piste nella neve, patito lo stesso gelo e la stessa fame, hanno cercato rifugio per la notte nelle stesse isbe, sono stati benedetti dalla pietà dalle stesse mamme e nonne russe. Una di queste donne, mentre il nonno, ferito, riposava, gli cucì in una notte di lavoro un paio di stivali di feltro per sostituire gli scarponi distrutti. “Tridentina avanti!” e tutti e due sono corsi giù, a mani nude, dalla lunga collina di Nikolajewka fra le bombe e la mitraglia. Non c’era in loro ardore guerriero o desiderio di gloria, ma una grande fede in don Gnocchi e, nel nonno, un grande senso di responsabilità per i propri uomini. E, raccontava lui, un immenso spirito di Corpo, di solidarietà fra gli alpini, soldati valorosi che non amavano la guerra. Purtroppo solo uno su dieci tornò da quelle steppe gelate e tutti e due si chiesero il perché di quelle vite perdute. Ritornato in Italia nel 1943, don Gnocchi viaggiò tra le valli alpine per portare alle famiglie dei caduti un ricordo e un conforto morale. Dopo la guerra diede vita a una fondazione per aiutare orfani e mutilati di guerra. Quarant’anni dopo, Vittorio Cristofoletti tornò con alcuni compagni sulle rive del Don, ripercorrendo i sentieri della sua giovinezza. I soldi ricavati dalla vendita del libro di memorie furono devoluti ad una scuola di Karabut, quella che in guerra avevano smantellato per ricavare materiale per le loro postazioni. Oggi, mentre guardavo la sfilata degli alpini, ho trovato lo stand della Fondazione don Gnocchi, che tuttora si impegna a portare avanti la sua opera: così ancora oggi la Tridentina va avanti!

    Vittorio Graziati pronipote di Vittorio Cristofoletti e alunno della scuola media di Treviso

    Caro Vittorio, grazie di questa bellissima lettera, talmente bella da sembrare scritta da un adulto. Come vedi, la metto al primo posto in questa rubrica. Non solo per ciò che racconta, ma soprattutto per dire quanto all’Ana stiano a cuore le nuove generazioni. E questo perché speriamo di avere tra loro e molto presto dei nuovi alpini, ma anche perché senza di loro si rischierebbe di interrompere la catena delle nostre migliori tradizioni e dei valori che cerchiamo di portare avanti. Valori che sono un patrimonio sociale condiviso e non solo monopolio di un gruppo, per quanto grande. È quello che cerchiamo di far conoscere attraverso le nostre iniziative, comprese le Adunate, che diventano una grande opportunità per uscire dalla nostra silenziosa laboriosità e coinvolgere tutti i cittadini sensibili al bene comune. Per concludere, caro Vittorio, ti dirò che anch’io avrei dovuto portare il tuo nome, per le stesse ragioni per le quali i tuoi genitori l’hanno dato a te. Solo che alla fine mia madre si ribellò. Essendo l’ultimo di cinque fratelli disse che si era stancata di dare nomi di morti ai suoi figli, destino toccato agli altri quattro. E così io non ho un bisnonno alpino da ricordare col nome. Devo limitarmi a farlo col pensiero.