Il coraggio contro la forza

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    Settant’anni fa ad El Alamein, un centinaio di chilometri ad ovest del Nilo, fu combattuta la più grande battaglia in terra d’Africa della seconda guerra mondiale. La Battaglia di El Alamein segnò, insieme a quella di Stalingrado, la svolta del conflitto e colpì al cuore il mito dell’invincibilità dell’esercito tedesco. Sotto il profilo politico-strategico la battaglia pose fine all’incombente minaccia di occupazione dell’Alto Egitto e alla penetrazione delle armate italo-tedesche in Medio Oriente per l’acquisizione dei ricchi giacimenti di petrolio di quei Paesi.

     

    Il fronte, su un terreno completamente desertico, era compreso, da nord a sud, fra il Golfo degli Arabi e il ciglio della grande depressione di El Qattara, per uno sviluppo di circa 60 chilometri. Su quel tratto di fronte, nei mesi di settembre e ottobre, era schierata a difesa l’Armata italo-tedesca non più in grado di avanzare verso oriente per le gravi perdite subite e per aver trovata sulla loro direttrice di marcia una fortissima posizione difensiva inglese. Così avvenne che mentre gli italo-tedeschi si organizzavano a difesa gli inglesi si preparavano ad attaccare.

    Il lavoro della preparazione dell’offensiva inglese fu veramente imponente sotto tutti gli aspetti, ma in particolare sotto l’aspetto logistico: nelle loro retrovie quattro grossi centri logistici alimentavano le unità dell’Armata, nello stesso tempo potenziarono la forza con l’inserimento di diverse nuove unità dotate di armi e mezzi americani d’avanguardia. La data esatta dell’inizio dell’offensiva fu determinata dal corso lunare, dal momento che l’attacco doveva iniziare con luna piena. Venne deciso che l’operazione sarebbe iniziata nella notte del 23 ottobre.

    Le forze in campo erano tutte a favore degli inglesi: 240.000 uomini, Rommel ne aveva solo 120.000, 1.440 carri (di cui 400 carri pesanti americani tipo Grant e Sherman), contro 500 carri, molti dei quali di tipo medio e leggero; l’artiglieria era nel rapporto di 3 a 1, l’aviazione disponeva di 1.500 aerei da combattimento contro 350 di cui molti antiquati, come i biplani “C.R.42”ed i caccia “Macchi C- 200”; grande disponibilità di carburante contro una estrema penuria da parte italo- tedesca. Determinante per l’esito della battaglia fu l’azione dell’aviazione e dei sommergibili inglesi che distrussero buona parte dei rifornimenti diretti alle forze di Rommel; solo poco più di un terzo del naviglio riuscì a raggiungere i porti libici.

    A simile sproporzionato rapporto di forze va sommata la grave crisi di comando nelle forze dell’Asse proprio nei primissimi giorni della battaglia: in questo frangente Rommel si trovava in Austria in convalescenza, lo sostituiva il generale von Stumme che, la stessa notte dell’attacco, morì di infarto, mentre faceva un’ispezione alle truppe in prima linea. Il fronte difensivo italo-tedesco era saldamente ancorato al terreno e organizzato anche in profondità, difeso da 12 Divisioni di cui 4 corazzate.

    La linea di resistenza italo-tedesca, e soprattutto gli estesi campi minati schierati a protezione, indussero Montgomery ad attaccare l’avversario frontalmente. Il piano di attacco di Montgomery, in codice “Lightfoot” (Passo Felpato), prevedeva di agire con metodo e pazienza, sfruttando pienamente l’enorme vantaggio logistico, logorando e distruggendo le forze dell’avversario sul campo, in modo da impedirgli la ritirata e la possibilità di svolgere alcune battaglie di arresto in Libia. Dopo aver studiato il terreno, Montgomery decise di applicare lo sforzo principale a nord, verso la costa, nel tratto fra l’altura di Tell el Eisa e il costone di El Miteiriya e uno sforzo diversivo a sud in direzione di El Munassib.

    La sera del 23 ottobre alle 21.40 ora italiana, con un cielo stellato e la luna piena, su un fronte di circa 60 chilometri, l’orizzonte davanti alle linee italo-tedesche si accese improvvisamente di guizzi fiammeggianti e un violentissimo uragano di granate si abbatté sulle forze dell’Asse: più di mille cannoni spararono per ore sulle posizioni italiane e tedesche. Era iniziata l’operazione “Lightfoot”. All’alba, dopo aver aperto alcuni varchi nei campi minati, iniziarono i primi scontri ravvicinati fra carri armati e, per parecchi giorni, una lotta all’ultimo sangue divampò fra i contendenti, con attacchi diretti, attacchi diversivi, contrattacchi, manovre aggiranti, facendo sempre una grossa falcidia di uomini e di carri armati.

    Dopo una breve pausa per riordinare le unità logorate dagli ultimi combattimenti e immettere truppe fresche nella battaglia, la notte del 28 ottobre Montgomery riprese l’offensiva con un attacco massiccio nel settore nord, in direzione della costa, ma anche questo si sbriciolò, bloccato dai campi minati e da un contrattacco di Rommel eseguito con i resti delle sue divisioni corazzate e con l’apporto di un gruppo tattico della Divisione Ariete. Fallito il piano “Lightfoot”, Montgomery decise di cambiare il punto di applicazione dello sforzo principale, spostandolo poco più a sud in modo da concentrarsi sulle unità italiane del XXI Corpo d’Armata ritenute le più vulnerabili del sistema difensivo.

    Dal pomeriggio del 29 ottobre fino all’intera giornata del 1° novembre il fronte rimase calmo per completare il piano di riordino delle unità della 8ª Armata. Alle ore 1.05 del 2 novembre iniziò l’operazione “Supercharge” (attacco finale), che doveva, una volta per tutte, travolgere gli ostinati difensori mediante una massa corazzata appoggiata da centinaia di aerei. Rommel, dopo aver tentato invano diverse azioni di contrattacco con i pochi mezzi corazzati rimasti, si rese conto che non era più possibile resistere a lungo all’attacco inglese.

    La battaglia era perduta! Gli effettivi delle due divisioni corazzate dell’Afrika Korps, dopo i combattimenti di quelle giornate, erano ridotti a poco più di 3.000 uomini ed a una trentina di carri armati ancora efficienti. Anche le due Divisioni corazzate Ariete e Littorio, armate con cannoni da 47 millimetri, vennero in gran parte distrutte durante i combattimenti contro i potenti e ben corazzati carri “Sherman” e “Grant”, armati con cannoni da 75 millimetri e di maggiore gittata. A causa dell’ormai tragica scarsezza di rifornimenti, Rommel comprese che continuando a combattere su posizioni statiche, avrebbe rischiato il totale annientamento dell’Armata e, la notte del 3 novembre, diede ordine di ripiegare sulla posizione di Fuka, 90 chilometri più a ovest.

    Al generale von Thoma, comandante dell’Afrika Korps, invece impartì l’ordine di resistere sul posto sino al mattino seguente impiegando i resti delle Divisioni Littorio e Ariete, la Brigata paracadutisti Ramcke ed i paracadutisti della Folgore, che si sacrificarono per consentire il ripiegamento dei reparti appiedati. L’operazione era in pieno svolgimento, quando subito dopo mezzogiorno, sempre dello stesso giorno, Hitler impartì l’ordine a Rommel “di difendere ad ogni costo le posizioni di El Alamein”. Per le forze di Rommel quell’ordine fu fatale perché dovettero resistere ad oltranza. L’operazione “Supercharge” raggiunse il pieno successo il 4 novembre, in cui centinaia di carri britannici investirono le posizioni italiane e, dopo aver aperto una breccia ampia 20 chilometri, avanzarono verso ovest. Gli italiani combatterono con coraggio esemplare. Al calar della sera gli ultimi carri dell’Ariete e della Littorio vennero distrutti.

    Le divisioni Trento e Bologna furono travolte; nel pomeriggio del 5 novembre dovette cedere le armi la divisione Brescia e poi il giorno 6, fu la volta dei resti della Pavia e della Folgore. La battuta d’arresto imposta al ripiegamento dall’ordine di Hitler, compromise l’esito generale della ritirata; le Divisioni di fanteria appiedate del X Corpo d’Armata italiano ebbero preclusa ogni via di fuga da parte delle avanguardie inglesi alle quali dovettero arrendersi. Oltre 30.000 soldati vennero fatti prigionieri. La notte del 4 novembre, i resti dell’Afrika Korps e alcuni reparti italiani iniziavano il ripiegamento verso Fuka, favoriti dalla cautela di Montgomery, che timoroso di lanciare un inseguimento notturno fece fermare le sue forze corazzate.

    Questo indugio consentì a Rommel di sganciarsi dal nemico e intraprendere una lunga ritirata senza avere l’assillo di dover ingaggiare continui combattimenti. Il 10 novembre gli inglesi raggiunsero il Passo Halfaya, il 12 Tobruk, il 19 Bengasi e il 24 novembre le avanguardie raggiunsero El- Agheila, in Tripolitania. “La resistenza – dirà poi Montgomery – si rivelò più accanita di quanto si fosse previsto”. Winston Churchill, il 21 novembre 1942, durante un discorso alla Camera dei Deputati ebbe a dire: “Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di ciò che rimane dei leoni della Folgore”. L’Armata italo-tedesca pagò un prezzo di sangue e di sofferenze molto alto: al termine della battaglia si contarono oltre 9.000 Caduti o dispersi, 15.000 feriti, 35.000 prigionieri, 400 carri armati e più di 1.000 cannoni distrutti.

    L’VIII Armata registrò 5.000 fra morti e dispersi, 9.000 feriti e 500 carri armati distrutti. Va notato che sia Montgomery che Harold Alexander furono avvantaggiati durante le operazioni offensive dalle intercettazioni del servizio decrittazioni “Ultra”, che permise ai due comandanti di conoscere in anticipo le decisioni dell’Asse. La battaglia si tramutò in uno scontro gigantesco, durato tredici lunghissimi giorni, dalla costa di El Alamein fino ai margini della depressione di El Qattara, durante i quali le forze britanniche, nonostante la loro soverchiante superiorità in uomini e mezzi, furono costrette a guadagnarsi duramente la vittoria, metro su metro.

    I nostri soldati, fanti, bersaglieri, granatieri, paracadutisti, cavalieri, artiglieri, carristi, genieri, trasmettitori, avieri, marinai, giovani fascisti, soldati dei servizi, ascari, durante quella infuocata battaglia “si sono aggrappati con furore, ciascuno, al proprio pezzo di deserto squallido, quasi fosse terra promessa” come ebbe a dire l’indimenticabile colonnello Paolo Caccia Dominioni, comandante del glorioso XXXI battaglione Genio guastatori. Nel nome d’Italia si sono battuti, assieme ai soldati tedeschi, con grande coraggio e onore, impegnando tutte le loro risorse fisiche e morali ancora disponibili, per assolvere al proprio dovere.

    Tullio Vidulich
    generale degli alpini