Il calore della stufa

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    Giugno 2015 Comelico (Belluno), dotati di metaldetector, trascorriamo una giornata dedicata al sopralluogo nelle trincee della Prima guerra mondiale per cercare di capire e conoscere la vita di trincea, i sacrifici sopportati dai soldati e le opere realizzate dai nostri nonni durante i lunghi mesi passati al freddo. Il fine è quello di riportare in vita i reperti storici, testimoni attendibili di quanto è accaduto in quel determinato luogo; reperti storici che, una volta puliti e restaurati, vengono esposti nei musei, nelle mostre, utilizzati per raccontare la storia durante gli incontri, anche nelle scuole, e far conoscere così ai ragazzi quale disgrazia sia la guerra e quale rispetto dobbiamo alla memoria di chi ha combattuto sacrificando la propria gioventù e troppo spesso, anche la vita per la Patria, qualunque fosse. “Bip bip… bip bip” il metaldetector suona, quasi squilla: cosa ci sarà di così grande lì sotto? Dopo aver smosso una montagna di foglie, sassi e terra, appare il tipico colore del ferro arrugginito: è una minuscola stufetta di guerra intatta, a 2 fuochi numero 0 in ghisa fusa, Fonderie Neca Pavia. Superata la sorpresa e la gioia per il prezioso rinvenimento, sorge subito una domanda, perché era qui? Prima immersi nei libri per conoscere i fatti lì accaduti e poi, su di nuovo in trincea ad esplorare. Ne scopriamo un’altra, sempre sotterrata con grande cura nel luogo in cui si trovava come retroguardia, sino alla ritirata, l’eroico battaglione alpino Fenestrelle, unico battaglione alpino che riuscì a conquistare saldamente due cime sulla displuviale carnica, Cima Vallona e Cima Palombino. Ritroviamo anche due piccoli badili italiani dell’allora dotazione individuale, marchiati 24º reggimento fanteria, manico volutamente segato a mano oltre cento anni fa. Perché alpini e fanti avevano sotterrato tutto? La risposta è scritta nei libri dello Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico: XIIª offensiva dell’Isonzo, passata alla storia per noi italiani come battaglia di Caporetto. I soldati italiani, prima di ritirarsi sulle linee di resistenza del Monte Grappa e del Piave, nonostante fossero consci che solo qualche ora li separava dalla “vendetta” delle mitragliatrici germaniche ed austroungariche, scavarono e sotterrarono ogni tipo di materiale in dotazione per non lasciare nulla al nemico. Ma il Bollettino ufficiale diceva che stavano scappando, non avevano dunque fretta di fuggire? No, non stavano scappando, ma ritirandosi, la differenza è abissale, per questa ragione trovarono la forza di non lasciare nulla al nemico, un atto di enorme coraggio. Quindi quando nel bollettino ufficiale il Generale Cadorna scrisse: “Vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico” non scrisse il vero. I fatti dimostrano che i soldati italiani non scapparono durante la battaglia di Caporetto ma fecero il loro dovere fino in fondo, su tutto il fronte di guerra, ritirandosi, perché costretti, ma forse con l’idea di ritornare e recuperare quanto lasciato. Le prove del coraggio dei soldati sono giunte sino a noi grazie anche a questi ritrovamenti sul campo, nelle vecchie trincee e nei baraccamenti. Le stufette, a volte recuperate intere, altre spaccate, sono su tutto il fronte da Caporetto a Tolmino, sino all’Hermada, passando per l’altopiano di Asiago e su nel bellunese fino alle Alpi Carniche. E interrate sempre in luoghi riparati, avvolte con estrema cura in fogli catramati per essere protette dalle intemperie, a dimostrare quanto fossero ritenute preziose poiché rappresentavano il solo modo per scaldare una minestra o il piccolo spazio nel quale vivevano i soldati.

    Tiziano Vanin

     

    L’Italia entrò in guerra il 24 maggio con scarsissime dotazioni ed è del tutto evidente che il Regno sabaudo non si poteva permettere l’acquisto di migliaia di stufe e di centinaia di tonnellate di legna e carbone. Furono gli stessi ufficiali o, qualche soldato abbiente che chiesero aiuto a casa e si fecero inviare le stufette, quindi tutte di produzione civile. Ad oggi non è noto se vi siano state produzioni di stufe militari in serie, tranne qualche acquisto sempre da fonderie per uso civile, come la nota stufa “maialina” o della fonderia Neca di Pavia. Gli avversari se la passavano meglio? Sembra di no, i soldati furono dotati di una stufetta pieghevole leggerissima in semplice lamiera di ferro, non coibentata, che richiedeva di essere alimentata di continuo perché non teneva il calore, tant’è che veniva coibentata dai Kaiserjager con un getto di cemento fatto a mano. Le stufette di guerra ritrovate sono ora esposte al Museo nazionale storico degli alpini a Trento e al Forte Gazzera a Mestre (Venezia).