Gli scarponi di Sora

    0
    260

    Una vecchia foto, piuttosto nota, su una parete della sede di un gruppo Ana ritrae otto alpini e un ufficiale. Sono gli “otto” del capitano Gennaro Sora: uomini eccezionali, provetti alpinisti e ottimi sciatori, dotati di grande resistenza fisica, scelti per raggiungere Sora alla Baia del Re, nelle isole Svalbard, base del dirigibile Italia nel suo tentativo di raggiungere il Polo Nord. Uno degli otto “scarponi”, come li chiamava Sora, era il sergente maggiore Giuseppe Sandrini e i ricordi legati alla sua presenza ci consentono di rievocare quella straordinaria vicenda.

    Originario di Ponte di Legno in Val Camonica, dove era nato il 29 gennaio 1901, al momento della chiamata per la spedizione era in servizio al battaglione Tirano del 5° Alpini. Sora lo giudicava “un atleta agilissimo, alpinista esperto e coraggioso, amante del rischio e ottimo conoscitore dei ghiacciai dell’Adamello che percorse sin da fanciullo”. Dopo la selezione, gli otto prescelti avevano raggiunto La Spezia e il 20 marzo 1928 prendevano il mare sulla “Città di Milano”, appositamente adattata per la sua importante missione di supporto al dirigibile Italia.

    Il viaggio richiedeva ben quaranta giorni, a causa soprattutto di alcune soste necessarie al carico dei viveri. Il 22 aprile la nave lasciava il porto norvegese di Tromsø e il 2 maggio giungeva in vista della Baia del Re. La presenza dei ghiacci impediva di toccare terra, così il capitano Sora, già sul posto dalla fine di marzo, calzava gli sci e saliva a bordo: «Vedo ufficiali, marinai, soldati… ecco i miei alpini nella loro cara divisa grigioverde ed il cappello acciaccato con la penna al vento». Sandrini, uomo di poche parole, in qualità di sottufficiale più anziano li presentava al nuovo comandante con un semplice: «Siamo qua».

    Il lavoro cominciava immediatamente, in attesa dell’arrivo del dirigibile previsto quattro giorni dopo. Occorreva innanzitutto scaricare la nave del suo carico e, dopo l’arrivo dell’Italia, mantenere sgombro l’involucro del dirigibile dalla neve, operazione difficile e delicata. Purtroppo, secondo quanto riporta Sora, non tutto andò come previsto e cominciarono screzi e invidie all’interno della spedizione italiana che finirono per coinvolgere lo stesso capitano, con spiacevoli conseguenze. Giungeva anche il maltempo a rendere più faticosa l’attività degli uomini.

    Scrive ancora Sora: “I miei alpini non dormono da tre giorni e mangiano in fretta e furia un boccone ogni tanto alla mensa degli operai norvegesi”. Alle 10 e 27 del 25 maggio il dirigibile Italia, partito il giorno precedente per raggiungere il Polo, trasmetteva l’ultimo messaggio radio. L’ipotesi della catastrofe diventava presto una ragionevole certezza e si metteva in moto la macchina dei soccorsi. La “Città di Milano”, con a bordo Sora e i suoi alpini, salpava il 27 maggio per partecipare alle ricerche; il proposito era di raggiungere la zona dell’ultimo rilevamento, ma già il giorno successivo la banchisa impediva alla nave di proseguire la navigazione. Si decideva a questo punto di invertire la rotta e di sbarcare alla Baia della Maddalena una pattuglia con il compito di perlustrare una vasta zona, cercando notizie anche dai cacciatori locali. Uno di loro, di nome Valdemar Kramer, aveva accettato di fare da guida.

    Componevano questa pattuglia il Sandrini, designato da Sora come comandante, l’alpino Pedrotti e i due esperti alpinisti del Sucai Albertini e Matteoda. Il resto del gruppo tornava alla Baia del Re per organizzare un’altra spedizione di ricerca. La pattuglia di Sandrini poteva partire solo nel pomeriggio del giorno 30, quando il maltempo aveva concesso finalmente una tregua. La prima tappa prevedeva di raggiungere il punto chiamato Capo Flatt ma, mentre gli italiani intendevano procedere via terra, la guida Kramer prendeva la decisione di tentare nuovamente via mare, navigando in prossimità della costa.

    Ma anche questo tentativo era destinato a fallire: dapprima erano costretti a trainare la barca sui blocchi di ghiaccio poi, giunti nei pressi dell’isola Amsterdam, non trovavano più tratti di mare libero ed erano costretti a tornare indietro. Tentavano allora di proseguire verso la costa con gli sci, passando sui ghiacci alla deriva che le correnti ora avvicinavano ora allontanavano dalla terra ferma, giungendo a impiegare gli sci come remi per dirigere i lastroni. Nel frattempo, Kramer, approfittando di un miglioramento delle condizioni del mare, era riuscito a riprendere la navigazione e a imbarcare il resto del gruppo, raggiungendo finalmente Capo Flatt alle 9 del 2 giugno. Ma del dirigibile Italia nessuna traccia.

    Alla sera del giorno successivo riprendevano la navigazione fino a una capanna di cacciatori; anche qui non trovavano notizie. La tappa successiva avrebbe dovuto raggiungere Capo Ross ma alla mattina del 5 giugno, poco prima della partenza, scorgevano all’orizzonte il profilo di una nave. Era la baleniera norvegese Hobby, la stessa che aveva portato il capitano Sora alla Baia del Re. Per le ricerche aveva imbarcato due aviatori norvegesi e tre elementi del gruppo alpino: il sergente maggiore Giovanni Gualdi e gli alpini Giulio Guidoz e Mario Deriard. Si univano così a loro e la navigazione riprendeva in direzione della Terra di Nord-Est.

    Tre giorni dopo incrociavano la baleniera Baganza, noleggiata appositamente dal Governo italiano per le ricerche, venendo così a sapere che i superstiti del dirigibile erano riusciti a lanciare una richiesta di soccorso e le ricerche venivano ora condotte in un’altra area. Il gruppo Sandrini passava sulla Baganza ma il giorno 10, a causa del ghiaccio che aveva imprigionato la nave, dovevano riprendere gli sci e raggiungevano la Mossel Bay. Qui avevano la fortuna di ritrovare i compagni e il loro comandante: “…oggi alle 14 ecco apparire da lontano cinque piccole macchie scure sulla sponda sud della baia ed ingrandire avvicinandosi rapidamente. Cinque uomini, cinque sciatori. Fra essi vi saranno certo i miei alpini. Mi precipito ad incontrarli e presto li ravviso: sono il sergente maggiore Sandrini, l’alpino Pedrotti, i sucaini Albertini e Matteoda, ed è con loro Alfredo Svenson, il fiero cacciatore norvegese. Una viva gioia m’invade nel rivedere i componenti di quella pattuglia…”.

    Portavano a Sora la notizia che i dispersi erano vivi; qualche giorno dopo lo stesso capitano partiva per un rischioso tentativo di soccorso. Dopo il salvataggio dei superstiti, avvenuto il 12 luglio, il gruppo di alpini si imbarcava il 15 settembre sulla “Città di Milano” per tornare in Italia, giungendo a La Spezia il 20 ottobre, là dove tutto era cominciato. Dopo la fine della spedizione polare Sandrini nel 1936 partecipava alla guerra d’Etiopia dove era decorato di una Medaglia d’argento e di una Croce di guerra al valor militare; l’anno successivo giungeva la promozione a maresciallo capo. Si congedava nel 1956 e trovava impiego nella Casa per veterani Umberto I di Turate (Como). Chiudeva la sua vita terrena il 13 agosto 1985. Qualche anno prima, a ricordo della sua avventura polare, aveva donato al gruppo alpini di Saronno, una vecchia fotografia con otto alpini e un ufficiale.

    Massimo Peloia