Gli alpini nella storia d'Italia (6ª puntata)

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    “Cari genitori – scrive il 18 giugno 1917 il sottotenente degli alpini Adolfo Ferrero – fra cinque ore qui sarà un inferno. Fremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa, e rombi e tuoni e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in questo istante medesimo sento in lontananza. Vorrei dirvi tante cose, tante, ma Voi ve l’immaginate. Vi amo, vi amo tutti… Darei un tesoro per potervi rivedere. Ma non posso”. In effetti, il sottotenente Ferrero non riuscirà ad abbracciare nessuno dei suoi cari e neppure a far recapitare loro la lettera scritta nei momenti d’angoscia che precedono il combattimento: quelle poche righe drammatiche e sofferte verranno ritrovate quarant’anni dopo, accanto alle ossa dell’attendente cui le aveva affidate prima di morire.

    Di tante battaglie della Prima guerra mondiale, l’Ortigara è penetrata nell’immaginario collettivo degli alpini (e non solo degli alpini!) come il momento più tragico, in cui si riassumono tutti gli elementi dell’esperienza bellica. All’origine della battaglia ci sono gli avvenimenti della primavera/ estate1916, quando gli austriaci fanno partire dal Trentino l’operazione “Strafexpedition” (“Spedizione punitiva”, cosiddetta perchè tesa a “punire” l’Italia che ha abbandonato la Triplice Alleanza e si è schierata contro i suoi ex alleati austro- germanici).

    All’offensiva sferrata dal maresciallo Conrad (che raggiunge l’altopiano dei Sette Comuni), il Regio Esercito reagisce con una controffensiva che costringe i nemici ad un parziale ripiegamento: essi si attestano quindi su una linea difensiva che dal margine della Valsugana per l’Ortigara, Monte Campigoletti, Monte Chiesa, Monte Corno corre verso sud sino alla Vald’Assa. Si tratta di una linea pericolosa per le forze italiane: gli austriaci controllano infatti gli sbocchi verso la pianura vicentina e, soprattutto, possono ammassare truppe in quell’area e tentare uno sconfinamento nel piano, che minaccerebbe di prendere alle spalle le nostre armate del Cadore, del Carso e dell’Isonzo. Consapevole di questi rischi, il Comando Supremo emana direttive per un’ulteriore controffensiva, convenzionalmente denominata “azione K”, che dovrebbe concentrare il proprio sforzo sul tratto monte Ortigara – monte Campigoletti.

    Programmata per l’autunno 1916 ma rinviata per le precoci nevicate, l’operazione viene riproposta nella primavera 1917 e affidata al comando del gen. Mambretti, comandante della VI Armata. Il 1° giugno viene emanato l’ordine di operazioni che affida il compito principale alla 52ª divisione (alle cui dipendenze sono i battaglioni alpini): attacco frontale contro le posizioni nemiche comprese fra monte Ortigara e monte Campigoletti. Già difficile nell’autunno 1916, l’assalto diventa proibitivo nella primavera 1917. Gli austriaci hanno infatti utilizzato i mesi di stasi invernale per rafforzare con cura le loro linee difensive: in particolare, sul monte Ortigara sono state scavate trincee in roccia profonde un metro e mezzo, protette da parapetti di mezzo metro fatti con muri a secco.

    A quota 2015 è stato fatto uno sbancamento di roccia profondo 4 metri, creando un riparo eccellente e pressoché invulnerabile per il tiro delle mitragliatrici. Tutto il sistema trincerato è difeso da robusti reticolati, con palificazione metallica infissa nella roccia e appostamenti protetti; nella fascia difensiva retrostante, sono state costruite postazioni per artiglieria, impiantate teleferiche, assicurate le comunicazioni trincerate con le retrovie. L’efficacia di questi sistemi difensivi si combina con il particolare carattere del terreno, costituito da rocce di natura calcarea, con pendii ripidi e scoscesi ideali per il tiro dei difensori. Tra gli ufficiali italiani, non manca chi avanza riserve sul piano operativo, a cominciare dal generale Como Dagna, comandante dei gruppi alpini I e II. Ma il Comando Supremo resta però irremovibile e il 10 giugno la battaglia ha inizio con una preparazione di artiglieria prolungata dalle 5.15 sino alle 15.

    I risultati del tiro sono tuttavia poco incoraggianti: le avverse condizioni atmosferiche (prima la pioggia, poi una nebbia fitta che riduce la visibilità) permettono di centrare solo in alcuni punti le barriere difensive, mentre in molti altri i reticolati restano quasi intatti e i muri delle trincee non vengono scalfiti. Nondimeno, alle 15 l’artiglieria allunga il tiro e diciotto battaglioni alpini partono all’assalto uno dopo l’altro.

    L’intento è quello di alimentare la lotta con gran quantità di truppe, in modo da sostituire i reparti di primo assalto con forze fresche e avanzare senza sosta, ma l’arresto dell’avanzata per il fuoco di sbarramento austriaco porta ad un ammassamento eccessivo e all’inevitabile frammischiamento dei battaglioni. Ne risulta un quadro drammatico e caotico, ben descritto da Emilio Faldella nella sua “Storia delle truppe alpine”: “L’avanzata dei battaglioni di prima linea avviene sul terreno coperto di neve in liquefazione, nella nebbia fitta, tra i piovaschi, sotto il fuoco dell’artiglieria austriaca che batteva alla cieca: si sale su per il pendio roccioso, tra le raffiche delle mitragliatrici, con gli assalti stroncati davanti ai reticolati, i battaglioni di rincalzo che si spingono in avanti mescolandosi con quelli che li precedono”.

    Un teatro di generosità e di morte, di confusione e di paura, dove le limitate conquiste delle quote 2003 e 2101 vengono pagate a prezzi altissimi: “Caduta la notte, il vallone dell’Agnellizza è ben paragonabile ad un girone infernale. Fra granate scoppianti e i frequenti piovaschi, gli alpini arrancano sui pendii scivolosi, chi va avanti, chi va verso le retrovie, barelle e feriti capaci di camminare, in lunghe teorie.

    Morti e feriti ancor non potuti soccorrere giacciono un po’ dappertutto, in mezzo al fango, fra i radi cespugli di mughi, mentre alle quote 2003 e 2010 sparuti drappelli di superstiti del ‘Bassano’ e del ‘monte Baldo’ resistono, intirizziti per la rigida temperatura”. Se l’attacco del 10 giugno è tatticamente improvvido, la prosecuzione ordinata per il giorno successivo è militarmente insostenibile. La ripetizione dell’attacco con le stesse condizioni atmosferiche sfavorevoli, i difensori ormai vigili e opportunamente disposti, le truppe provate fisicamente e moralmente, non può che risolversi in una nuova ecatombe. Le conseguenze si commentano con la tragedia dei numeri: le 6.752 perdite del 10 giugno raddoppiano.

    Il 12 giugno l’offensiva è sospesa. Il Comando Supremo non ritiene di dover intervenire. Cadorna lascia al generale Mambretti la decisione sull’eventuale prosecuzione dell’attacco: e poichè questi pensa che l’unica causa dell’insuccesso siano state le condizioni atmosferiche avverse, l’azione viene ripresa il giorno 18. Dopo ben 25 ore di fuoco di artiglieria, all’alba del 19 giugno, otto battaglioni alpini si slanciano verso l’Ortigara e, nonostante le perdite, in un’ora riescono a conquistarne la vetta. Al successo degli alpini non corrispondono però i risultati sul resto del fronte, dove le divisioni di fanteria vengono bloccate dalle difese nemiche.

    Il generale Mambretti, sconcertato da questo secondo fallimento, ordina la sospensione dell’attacco e gli alpini, lanciati verso la conquista del monte Campigoletti, devono fermarsi. Sicuramente questa decisione evita ulteriore spargimento di sangue tra i fanti, ma costringe i battaglioni alpini ad attestarsi su posizioni difficili, esposti al tiro nemico e all’inevitabile controffensiva. Questa arriva puntuale nella notte tra il 24 e il 25 giugno: attaccati prima con bombe asfissianti, poi con assalitori muniti di lanciafiamme, i difensori sono costretti ad abbandonare la vetta dell’Ortigara.

    Ma la tragedia non è finita. Di fronte ad una situazione di estrema difficoltà, il comando d’armata, anzichè ordinare un ripiegamento generale, comanda un vasto contrattacco con tutte le forze disponibili. Ciò che segue fra la sera del 25 e la notte del 29/30, quando l’azione è definitivamente sospesa, è un impressionante susseguirsi di ordini e contrordini, di disposizioni ora rettificate ora ribadite, di iniziative di un comando smentite dal comando superiore: una babele in cui l’inadeguatezza di chi occupa i posti di maggior responsabilità emerge in tutta evidenza, anticipando quanto accadrà pochi mesi dopo a Caporetto.

    Per altri quattro giorni si attaccano posizioni imprendibili, i reparti si lanciano all’assalto uno dopo l’altro, alpini e fanti cadono sotto il tiro nemico. Il giorno 30, finalmente, giunge l’ordine di ripiegare sulle posizioni occupate prima del 10 giugno: l’operazione non ha permesso di guadagnare un solo metro di terreno, ma è costata ben 23.736 vittime.

    Gianni Oliva

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