Gemma de Gresti, l’angelo dei prigionieri

    0
    350

     

    Il 6 novembre 1914 a San Leonardo di Borghetto d’Avio (Trento), allora territorio austriaco, si celebrava la festa del patrono, protettore dei prigionieri. La ricorrenza quell’autunno era però solo liturgica, perché funestata dalla notizia della guerra con la Serbia e la Russia, innescata dall’assassinio, il 28 giugno, dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria e Ungheria. Gli uomini abili erano stati chiamati alle armi e dal fronte giungevano notizie di sofferenza e morte. La festa di San Leonardo era quindi diventata un momento di dolore comune per la piccola comunità trentina.

    Durante la celebrazione della Messa si udì un pianto mal represso. Era Rosina Franchini che aveva 4 figli al fronte, arruolati nell’esercito austroungarico: Giuseppe e Angelo erano stati feriti, Giovanni combatteva in Galizia ma era da tempo che non dava notizie, Eugenio era prigioniero in Russia. Fu così, in una chiesa, che ci fu l’incontro tra mamma Rosina che abitava a Masi d’Avio uno dei 13 masi compresi tra Vo sinistro e San Lorenzo e la marchesa Gemma de Gresti, figlia di Oddone dei marchesi de Gresti e di Emilia de Asart, russa di Odessa. Fortunata di nascita, la vita di Gemma de Gresti non fu ugualmente facile. Nel 1894, a vent’anni, sposò Tullio Guerrieri Gonzaga, marchese di Montebello, che la lasciò vedova nel 1902 a soli 28 anni con un figlio in giovane età, Anselmo.

    Gemma prese a cuore la situazione di mamma Rosina e, senza preoccuparsi della vastità del territorio russo e della Siberia, diede inizio alla ricerca di Eugenio Franchini, scrivendo a parenti e amici che risiedevano a Mosca, San Pietroburgo e Odessa. Nonostante mille difficoltà Eugenio fu rintracciato e la notizia, apparsa sulla stampa locale, spinse altri familiari a rivolgersi a Gemma de Gresti. Il compito non era facile: i prigionieri erano 12.000 ed erano in 57 località diverse.

    Per raggiungerne il più possibile, inviò ai prigionieri che via via venivano individuati una lettera in italiano e in russo sulla quale il ricevente doveva scrivere i nomi dei prigionieri che si trovavano con lui, il loro stato di salute e altre indicazioni utili per poterli contattare. Le informazioni venivano poi pubblicate sui giornali locali in modo da tranquillizzare le famiglie e coordinare la spedizione di pacchi, vestiario e generi alimentari. Il 24 maggio 1915 cambiò le carte in tavola: l’Italia entrò in guerra contro gli Imperi Centrali dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità in Europa.

    Il lavoro della marchesa Gemma fu dunque ostacolato, oltre che dalle vicende belliche, anche dalla censura. Sollecitò quindi il governo italiano a inviare delegazioni per ispezionare i campi di detenzione e a radunare i soldati che avrebbero potuto essere rimpatriati sotto il patrocinio dell’Italia. I prigionieri non li lasciò mai soli, nemmeno quando l’ultimo scaglione (in 2.000 erano già tornati a casa) che doveva imbarcarsi da Arcangelo, nella Russia Nord Occidentale, fu bloccato dai ghiacci invernali e, sopravvenuta la rivoluzione bolscevica, dovettero raggiungere Vladivostok, sul Mar del Giappone, attraverso la Siberia.

    Oltrepassando difficoltà burocratiche e diplomatiche quasi insormontabili, la marchesa Gemma chiese all’amico ambasciatore del Giappone in Italia di far pervenire la lettera che invocava aiuto Gemma de Gresti, l’angelo dei prigionieri direttamente all’imperatore giapponese. I prigionieri che nel frattempo avevano raggiunto Tiensin e poi Pechino furono imbarcati alla volta di San Francisco e da lì, molti mesi dopo, alcuni raggiunsero Genova. Altri si arruolarono nel Corpo di spedizione italiano in Medio Oriente, i cosiddetti battaglioni neri (così chiamati per il colore delle mostrine) nella lotta contro i bolscevichi.

    Il rientro in Italia dei prigionieri non fu facile, ma Gemma de Gresti si adoperò perché si aprissero per loro i posti di lavoro presso le grandi fabbriche e, nel 1923, fondò l’Associazione Reduci di Russia per continuare la ricerca dei soldati dispersi, per aiutare le famiglie, i mutilati e i feriti di guerra. Dove c’era bisogno Gemma era presente: tra i malati e i feriti degli ospedali da campo, grazie ad un lasciapassare che il Comando Supremo le aveva concesso per tutto il fronte e perfino nelle opere di ricostruzione nel Trentino, devastato dal conflitto.

    La sua instancabile opera continuò fino al 14 marzo 1928, quando, all’età di 54 anni morì nell’ospedale di Rovereto. Le sue spoglie riposano nella Cappella della Tenuta di San Leonardo, laddove una lapide dei reduci grati ricorda l’angelo dei prigionieri.

    Matteo Martin

    Pubblicato sul numero di dicembre 2009 de L’Alpino.