Il Times e i nostri soldati in Afghanistan

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    Il Times di Londra, il 16 ottobre 2009, pubblica una bella foto dei nostri soldati in Afghanistan e una brutta notizia. Sostiene, sulla scorta di dichiarazioni di un comandante talebano, Mohammed Iashmayel, e di due guerriglieri, che gli italiani hanno pagato, nel 2008, somme imprecisate per una specie di segreto patto di non belligeranza. La gravissima accusa viene ripetuta nei giorni successivi e crea un autentico terremoto in Italia e negli altri paesi della NATO impegnati in quel teatro di guerra. Il Governo italiano nega con durezza e dichiara che il giornale sarà querelato.

    Quello che fanno i servizi segreti, in tutti i paesi del mondo, resta ovviamente segreto e sull’attività di questi nulla si può dire, anche se normalmente comprano notizie, non operazioni sul campo. Certa è la scarsa attendibilità di non pochi personaggi che circolano in quella terra, e la loro parola è assolutamente insufficiente per suffragare un’accusa così infamante sull’attività di soldati apprezzati da tutti. Perché allora un grande giornale come il Times insiste per tre giorni, con ampi servizi, sulla notizia?

    Difficile se non impossibile avere lumi sugli obiettivi di questa campagna diretta a screditarci, ma di una cosa possiamo essere sicuri: i nostri soldati, per un preciso mandato del parlamento sono andati in Afghanistan con il solo obiettivo di portare, conformemente alle direttive delle Nazioni Unite, un po’ di ordine in un paese dove si aggrovigliano tensioni mondiali pericolose per tutti. Non essendo un esercito di occupazione, hanno cercato di avviare con la popolazione, martoriata da oltre trent’anni di sopraffazioni, un rapporto umano basato sulla solidarietà.

    Con ogni mezzo hanno cercato di far capire che la loro presenza in armi non vuole essere ostile, anzi ha il preciso scopo di aiutare. E lo hanno testimoniato portando attrezzature sanitarie, costruendo scuole, ponti, strade, pozzi, pattugliando, addestrando, ma soprattutto adoperandosi a stabilire un contatto amichevole con la gente e con l’organizzazione amministrativa del posto. Che non è quella che noi pensiamo. Sono state investite, da parte del governo, delle pubbliche amministrazioni, delle associazioni ANA in primis somme cospicue per perseguire l’obiettivo di avviare un minimo di organizzazione strutturata ai servizi primari di un paese che non riesce ad uscire dal Medio Evo.

    I capi tribù, equivalenti ai nostri sindaci, sono spesso interlocutori indispensabili per rendere efficace l’assistenza, la distribuzione degli aiuti e anche la ricerca di sicurezza. È forse questo che viene imputato come un mercanteggiamento ignobile? La nostra tradizione culturale, il rifiuto imposto dalla Costituzione a ricorrere alla guerra per risolvere le controversie, l’abitudine a mantenere un rapporto civile, umano, non da guerrieri, nei confronti delle popolazioni, con un ritorno indubbio di benevolenza, o non sono capiti dai nostri alleati o hanno scombinato il loro modo di agire, propenso all’uso della forza. I soldati italiani non sono codardi, i comandanti sono professionisti seri, culturalmente preparati, non machiavellici opportunisti. In Afghanistan i nostri morti li abbiamo avuti. Per qualcuno sono pochi, per noi anche troppi.

    Vittorio Brunello

    Pubblicato sul numero di dicembre 2009 de L’Alpino.