Dove osano le aquile

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    «Pensavamo che quanto sta accadendo in Ucraina fosse materia da tempo consegnata ai libri di storia: purtroppo è reale. Anche per questo, esprimendo tutta la solidarietà al popolo ucraino, riscontriamo quanto sia drammaticamente importante l’aspetto militare, di cui, dal punto di vista storico, si stanno occupando i nostri convegni». Ha introdotto così Mauro Azzi, del Centro Studi, la seconda conferenza del ciclo “Alpini 1872/2022: le Truppe da montagna custodi della memoria, esempio di solidarietà”, tenuta a Trento nello storico Palazzo Geremia.

    Il tema dell’incontro, “Dove osano le aquile: Alpini, montagna e addestramento”, ha offerto ai tre relatori l’occasione per disegnare un mosaico del rapporto inscindibile tra l’alpino e l’ambiente in cui opera. Al microfono si sono alternati, sollecitati dallo stesso Azzi, lo storico Diego Leoni, il prof. Nicola Labanca, direttore del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari e il gen. B. Matteo Spreafico, Capo di Stato Maggiore del Comando Truppe Alpine. Gli onori di casa sono stati fatti dal sindaco di Trento, Franco Ianeselli, che ha sottolineato quanto sia prezioso l’insegnamento degli alpini, per i quali l’amore per la Patria è inteso in senso quotidiano e totale, al di là dell’aspetto bellico.

    Il viatico ai lavori è stato dato poi dal comandante delle Truppe Alpine, gen. C.A. Ignazio Gamba, che ha ricordato come l’addestramento in montagna sia la ragion d’essere delle penne nere e dal nostro Presidente nazionale, Sebastiano Favero, che ha evidenziato fiducia e simpatia di cui sempre più godono gli alpini, sottolineando anche quanto sia importante trasmetterne i valori (riaffermati in ogni occasione con alzabandiera e onori ai Caduti) ai giovani «senza i quali non c’è futuro». Come la guerra, dunque, salì in montagna? Lo ha chiesto Azzi al prof. Leoni, il quale ha osservato come lo stesso gen. Cantore escludesse che la fanteria da montagna avrebbe dovuto operare al di sopra dei 1.800 metri e che «lo skiatore non potesse avventurarsi su itinerari a piacimento».

    In realtà la sfida – ha ricordato lo studioso – fu portata sempre più in alto, trasformandosi in guerra sasso per sasso, che poteva sembrare fine a se stessa. La Rivista Militare nel 1916 evidenzia come sia scomparsa la visione napoleonica della battaglia, combattendo su “una montagna bieca e arcigna, col nemico appiattito tra le rocce; una guerra senza bellezza e senza luce”. La montagna così diveniva nemico essa stessa, non tanto agli occhi degli alpini, quasi tutti montanari, quanto piuttosto degli ufficiali di complemento, che provenivano in buona parte dalle città.

    «Ma i soldati erano addestrati alla montagna? » ha chiesto Azzi al prof. Labanca. «Gli alpini andarono rapidamente aumentando di numero – ha detto il docente – quindi non erano più solo montanari: addestrali era fondamentale e all’addestramento bisognava aggiungere l’impiego dell’artiglieria. Si ricordi che il battesimo del fuoco per gli alpini non era stato in montagna, ma in Africa, in Eritrea prima e in Libia poi. In montagna tutto cambiava e l’addestramento si spostava sul terreno. Nella Seconda guerra mondiale, poi, il Governo chiese agli alpini cose diverse, con impostazione offensiva, per cui le unità divennero sempre più grandi, richiedendo l’allargamento dell’arruolamento alle zone di pianura.

    Per l’addestramento, comunque, la pietra miliare può essere considerata la Scuola Militare Alpina, istituita nel 1934, spintasi poi a trasformarsi in scuola di alpinismo e sportivismo». Proprio questa osservazione è servita al gen. Spreafico, che del Centro Addestramento di Aosta è stato comandante, per osservare come quella che tutti chiamiamo ancora la Smalp si sia trasformata in punto di riferimento e di eccellenza per l’attività militare in montagna in un ambito di multinazionalità. «Il nome è cambiato – ha sottolineato l’ufficiale – ma i presupposti no: addestramento e sport si uniscono nella specificità dell’essere alpino, sia individualmente, sia collettivamente. I pilastri addestrativi sono sci, alpinismo, soccorso in montagna, meteonivologia e mountain warfare.

    Attraverso lo sport si selezionano anche tecnici e preparatori: sono un centinaio i giovani che oggi rappresentano questa eccellenza in sedici discipline tra sci, fondo, biathlon, ecc. Cito per tutti Marta Bassino, gigantista a livello mondiale». Due video spettacolari quanto descrittivi hanno accompagnato, completandoli, gli interventi del gen. Spreafico, che ha evidenziato l’importanza del sistema logistico attorno alle esercitazioni, «eventi complessi che richiedono una sorta di osmosi tra tutte le componenti, anche nella comunicazione, per rendere partecipe tutta la filiera didattica del concetto di alpinità».

    Sulle difficoltà della guerra in montagna è tornato poi Leoni, richiamandosi ai diari che un personaggio della cultura italiana, Tommaso Gallarati Scotti, amico di Fogazzaro, scrisse durante la sua esperienza di ufficiale alpino sul Pasubio: «Si rende conto delle grandi difficoltà – ricorda Leoni – ma non ha strumenti tecnici o disciplinari per affrontarli. Lascia scritti molto interessanti, in cui descrive senza apparente senso di pietà i massacri al fronte: rimarrà per sua stessa ammissione prigioniero di quella barbarie.

    La guerra porta in montagna masse di soldati provenienti dalle città e accentua la contrapposizione tra quanti, in basso, non la combattono, restando a tavolino e quanti, in alto, la combattono, creando l’inscindibile amalgama della famiglia alpina». Gli ha fatto eco Labanca, ricordando come, venendo ai giorni nostri, ci sia materiale piuttosto scarso per lo storico, specie sotto la lente della prospettiva apocalittica di un confronto atomico («di cui nei manuali italiani si comincia a parlare solo nel 1954…»): «Siamo di fronte a cambiamenti epocali – ha detto – e cerchiamo risposte».

    ma.cor