Dove nasce la voglia di cantare

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    I festeggiamenti per i 90 anni della sezione ANA di Como, non potevano concludersi se non alla grande. E così è avvenuto. Il concerto dei Crodaioli, diretti da Bepi De Marzi nell’austera cornice della chiesa di San Fedele ha sbalordito chi non li aveva mai sentiti cantare ed ha ampiamente gratificato quelli che non perdono occasione per riascoltarli. Conoscevo alcune cante scritte da questo grande Maestro, ma non mi era mai capitato di sentirle eseguite dal vivo sotto la sua direzione.

     

    Il programma spaziava dall’omaggio allo splendore della natura al canto popolare, alla preghiera, alla sofferenza degli uomini in guerra. Il Maestro ha voluto dedicare queste tre ultime cante agli alpini caduti in Grecia ed in Russia e a suggellare questa sua intenzione, ha pubblicamente abbracciato Nelson Cenci e me, reduci, quali ideali rappresentanti di tutti coloro che non sono tornati.

    L’emozione mi ha ammutolito. Ma il bello è arrivato in chiusura della serata. Bepi De Marzi è riuscito, una prima volta a mobilitare tutto il pubblico che affollava i banchi e quello in piedi in ogni palmo libero della grande chiesa per farlo cantare, insieme al suo coro, quella splendida preghiera da lui composta tanti anni fa, quel “Signore delle cime” che è diventata un inno sacro. Subito dopo, accompagnati dal grande organo, suonato da Bepi, la marea degli alpini presenti, cappello in testa e rigidi sull’attenti cantava “Sul ponte di Perati bandiera nera, l’è il lutto degli alpini che va a la guerra”.

    Questa canzone l’avevo imparata nell’aprile del 1941, quando assieme a molti altri baldi giovani alla Scuola Militare Alpina di Aosta, stavo imparando il mestiere di ufficiale degli alpini. Ce l’aveva insegnata lo sparuto gruppo dei superstiti del battaglione sciatori “Monte Cervino”, rientrati quei giorni dall’Albania. Era stato proibito cantarla, perché considerata disfattista, ma noi la cantavamo egualmente, sull’attenti, perché avevamo capito che era un accorato de profundis.

    Quando, esattamente un anno dopo, fui assegnato a quello stesso battaglione sul fronte russo, era al canto di queste strofe che seppellivamo i nostri Caduti. Infine, quando, nei lager staliniani, le file degli alpini, come quelle degli altri soldati, si assottigliavano velocemente a causa della denutrizione e delle epidemie, questa canzone, cantata via via con voce sempre più flebile, era il solo viatico che precedeva il carico della scheletrica spoglia destinata alla fossa comune. La cantavo con la piena consapevolezza che non sarebbe passato molto tempo all’arrivo del giorno che non l’avrei più cantata né sentita cantare. Tornato miracolosamente a baita, ogni volta che sentivo quelle strofe, ritornavo a quei tristissimi momenti e non riuscivo a trattenere le lacrime. Sabato sera, nella chiesa di Como, non è successo.

    Quella navata colma di cappelli alpini e di famigliari che cantavano quella canzone, superando in volume l’accompagnamento dell’organo, con la piena coscienza di pronunciare una preghiera, non hanno fatto risorgere tutti i nostri morti perché, purtroppo, non c’è stato nessun dì della vittoria. Sono sicuro però, che essi hanno saputo che non sono stati dimenticati. Anch’io allora, ad occhi asciutti ed a piena voce ho cantato, sull’attenti, quello che non era più un Requiem, ma era diventato un Gloria.

    Carlo Vicentini
    (da BARADELL n. 1 gennaio-marzo 2011)

    Pubblicato sul numero di maggio 2011 de L’Alpino.