Dopo le lacrime, guardare al futuro

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    Quaranta. Tanti sono gli anni che separano due storie. Storie di morte, distruzione, lacrime e voglia di rinascere. Quarant’anni che vanno dal Friuli all’Italia Centrale, passando per L’Aquila e l’Emilia, impastati di dolore ma anche di solidarietà e di quella spinta creativa che appartiene al genio italiano.

     

    Il mese scorso, mentre varie colonne dell’Ana correvano ad aiutare la gente colpita dall’ultimo terremoto, il Consiglio Direttivo insieme ad una nutrita rappresentanza nazionale era a Gemona per ricordare i 40 anni da quell’evento terribile, che aveva messo in ginocchio il Friuli. Un’occasione per ricordare gli undici Cantieri di lavoro in cui si suddivisero gli alpini, intervenuti per non lasciare soli i fradis furlans, impegno che rivelò al mondo e non solo all’Italia ciò di cui erano capaci.

    Se ne accorsero anche gli Stati Uniti, che vollero consegnare alle loro mani i 53 miliardi di allora per la ricostruzione. Gli esiti di quell’intervento, uniti all’intraprendenza creativa della gente del posto, consentirono una rinascita che fa di quei luoghi un biglietto da visita per chiunque non voglia perdersi autentiche bellezze del Paese. Ma l’Ana non era a Gemona solo per far memoria del passato. Era là soprattutto per dire che la morte, non solo quella fisica ma anche quella economica e sociale, non può avere l’ultima parola dentro uno scenario di rassegnazione. Se oggi, nelle pagine interne del nostro mensile, siamo qui a raccontare il dramma delle genti del Centro Italia, colpite dal terremoto, è solo per fare da eco a questa sensibilità.

    La resistenza dei fradis furlans non fu quella di scappare di qua e di là, creando una diaspora che avrebbe disperso la loro identità e la loro storia. Il rischio era quello di rimettere in piedi le macerie, facendone dei presepi desolati nella loro solitudine di realtà inutili. Colpì tutti ciò che disse l’allora Presidente Ana, Franco Bertagnolli, dopo aver precettato con una simbolica cartolina rosa tutti gli alpini: «il terremoto non è mai alle spalle, ma sempre davanti a noi». Parole profetiche che trovarono conferma dopo la seconda scossa devastante del 15 settembre, che andava a distruggere ciò che non aveva fatto quella del 6 maggio.

    Non si trattava di un’affermazione iettatoria, ma di uno sguardo rivolto al futuro, ossia quello spazio dove tutti noi speriamo di vivere il più a lungo possibile e quindi da progettare rendendolo sicuro. Fu in quella logica che si iniziò a ricostruire. Lo si fece adeguando l’edilizia ai requisiti per resistere alle violenze della natura. Mi chiedo spesso, a questo proposito, perché l’Italia, terra ad altissimo rischio sismico, si trovi ogni volta a partire da zero come se il terremoto fosse una assoluta benché tremenda novità.

    È vero che il nostro patrimonio storico è costituito da realtà tanto lontane nel tempo, quanto strutturalmente fragili, ma l’impressione è che nella prevenzione e gestione del territorio a rischio si insinui anche la superficialità e l’incoscienza di chi dovrebbe provvedere e non lo fa, avendo tempo e denari, prima che l’apocalisse scateni la sua violenza. Comunque sia, la ricostruzione del Friuli è qui a ricordarci che essa iniziò prima di tutto dalla rinascita sociale, evitando di allontanare la gente dalle attività produttive. Se muore l’economia di un territorio, quel territorio diventerà un presepio inutile, obbligando la gente a cercarsi il pane altrove.

    Ora gli alpini sono ancora lì, dove altri fratelli piangono e hanno bisogno di aiuto, oggi come allora, con la simbolica cartolina rosa in mano, a spartire la fatica, ma anche riportando tanta stima per ciò che fanno e per come lo fanno. Una stima che l’Ana non si guadagna con la visibilità mediatica dei momenti emotivamente appaganti per l’immagine. Per quello altri sgomitano facendosi largo. A noi basta l’operosità del fare che ci è più congeniale. Sarà così anche per il Centro Italia. Le idee già scorrono sul gobbo. Tra non molto le vedremo concretizzate.

    Bruno Fasani

    Dopo le lacrime,guardare al futuroQuaranta. Tanti sono gli anni che separano due storie. Storie di morte, distruzione, lacrime evoglia di rinascere. Quarant’anni che vanno dal Friuli all’Italia Centrale, passando per L’Aquilae l’Emilia, impastati di dolore ma anche di solidarietà e di quella spinta creativa che appartiene algenio italiano.Il mese scorso, mentre varie colonne dell’Ana correvano ad aiutare la gente colpita dall’ultimo terremoto,il Consiglio Direttivo insieme ad una nutrita rappresentanza nazionale era a Gemona perricordare i 40 anni da quell’evento terribile, che aveva messo in ginocchio il Friuli. Un’occasioneper ricordare gli undici Cantieri di lavoro in cui si suddivisero gli alpini, intervenuti per non lasciaresoli i fradis furlans, impegno che rivelò al mondo e non solo all’Italia ciò di cui erano capaci. Sene accorsero anche gli Stati Uniti, che vollero consegnare alle loro mani i 53 miliardi di allora perla ricostruzione. Gli esiti di quell’intervento, uniti all’intraprendenza creativa della gente del posto,consentirono una rinascita che fa di quei luoghi un biglietto da visita per chiunque non voglia perdersiautentiche bellezze del Paese.Ma l’Ana non era a Gemona solo per far memoria del passato. Era là soprattutto per dire che lamorte, non solo quella fisica ma anche quella economica e sociale, non può avere l’ultima paroladentro uno scenario di rassegnazione.Se oggi, nelle pagine interne del nostro mensile, siamo qui a raccontare il dramma delle genti delCentro Italia, colpite dal terremoto, è solo per fare da eco a questa sensibilità. La resistenza deifradis furlans non fu quella di scappare di qua e di là, creando una diaspora che avrebbe dispersola loro identità e la loro storia. Il rischio era quello di rimettere in piedi le macerie, facendone deipresepi desolati nella loro solitudine di realtà inutili. Colpì tutti ciò che disse l’allora Presidente Ana,Franco Bertagnolli, dopo aver precettato con una simbolica cartolina rosa tutti gli alpini: «il terremotonon è mai alle spalle, ma sempre davanti a noi». Parole profetiche che trovarono confermadopo la seconda scossa devastante del 15 settembre, che andava a distruggere ciò che non avevafatto quella del 6 maggio. Non si trattava di un’affermazione iettatoria, ma di uno sguardo rivoltoal futuro, ossia quello spazio dove tutti noi speriamo di vivere il più a lungo possibile e quindi daprogettare rendendolo sicuro.Fu in quella logica che si iniziò a ricostruire. Lo si fece adeguando l’edilizia ai requisiti per resisterealle violenze della natura. Mi chiedo spesso, a questo proposito, perché l’Italia, terra ad altissimorischio sismico, si trovi ogni volta a partire da zero come se il terremoto fosse una assoluta benchétremenda novità. È vero che il nostro patrimonio storico è costituito da realtà tanto lontane neltempo, quanto strutturalmente fragili, ma l’impressione è che nella prevenzione e gestione del territorioa rischio si insinui anche la superficialità e l’incoscienza di chi dovrebbe provvedere e non lofa, avendo tempo e denari, prima che l’apocalisse scateni la sua violenza.Comunque sia, la ricostruzione del Friuli è qui a ricordarci che essa iniziò prima di tutto dalla rinascitasociale, evitando di allontanare la gente dalle attività produttive. Se muore l’economia di unterritorio, quel territorio diventerà un presepio inutile, obbligando la gente a cercarsi il pane altrove.Ora gli alpini sono ancora lì, dove altri fratelli piangono e hanno bisogno di aiuto, oggi come allora,con la simbolica cartolina rosa in mano, a spartire la fatica, ma anche riportando tanta stima perciò che fanno e per come lo fanno. Una stima che l’Ana non si guadagna con la visibilità mediaticadei momenti emotivamente appaganti per l’immagine. Per quello altri sgomitano facendosi largo. Anoi basta l’operosità del fare che ci è più congeniale. Sarà così anche per il Centro Italia. Le idee giàscorrono sul gobbo. Tra non molto le vedremo concretizzate.Bruno Fasani