Sono trascorsi sessant’anni dalla sua dipartita eppure l’eco di don Gnocchi risuona ancora in tutti, alpini e non. È emblematico come quest’uomo, figlio di un artigiano del marmo, modelli la propria vita sulle orme di Cristo facendone un esempio luminoso che rifulge a distanza di anni continuando a (s)colpire le nostre vite. La sua è una carità trasbordante, quella che all’indomani dalla Russia mette in moto qualcosa di nuovo. L’esperienza della guerra con il suo alito di morte e neve lo cambia, ma è lui, in ultimo, a mutare il conflitto stesso, umanizzandolo fino alla creazione del fiore più bello, la Pro Juventute. Un’ancora di Pace nella fluttuante atrocità della guerra. E per una volta possiamo dire che la montagna partorisce un gigante. Un alpino instancabile capace di grande sensibilità e acume in grado di sollevare gli animi, specialmente dei più giovani, gli stessi che oggi tornano nell’occhio del ciclone. Prendiamo allora parte a questa sua eredità con la semplicità di quel sorriso che fa nuova la società!
Quella tra don Carlo e gli alpini è una di quelle storie che dovrebbero esser raccontate ai bambini la sera per farli addormentare sereni. È una storia fatta di sorrisi, di pacche sulle spalle di devozione e rispetto reciproci. Di sacrifici, certo, ma soprattutto di speranza e di amore. Una cosa, però, è difficile da comprendere: saranno gli alpini ad aver imparato da don Gnocchi o sarà il nostro Beato (che per noi è Santo da sempre) ad essersi plasmato definitivamente alla scuola degli alpini? A sentir loro l’interrogativo non può essere sciolto: entrambi ritengono di essersi formati alle virtù gli uni dell’altro. E forse è proprio così. Sia come sia quella di don Gnocchi e degli alpini è la storia di un rapporto semplicemente straordinario. Un binomio incredibile che costituisce uno dei nostri tesori più preziosi. Don Carlo è affascinato degli alpini, dalla loro semplicità e del loro modo di essere uomini buoni e schietti.
È affascinato dal modo in cui interpretano il dovere anche quando la situazione potrebbe giustificare la ricerca di una scorciatoia. Gli alpini continuano semplicemente a fare quello che devono nel miglior modo possibile. Fanno cose straordinarie come se fossero le più ordinarie. La meraviglia di don Carlo per questi uomini semplici e grandi al tempo stesso si ritrova copiosa nelle lettere e negli scritti e ogni volta è un’attestazione di stima infinita e di meraviglia sincera.
«Gli alpini non dicono nulla. Marciano, lavorano e tacciono. Quasi ostinatamente. Non chiedono nulla. Anche l’eroico è per loro normale. Lo straordinario è ordinario. (…) Potessi imparare anch’io dai miei alpini questa virtù sublime: di rendere naturale e quasi inavvertito il sacrificio! Noi posiamo troppo. La semplicità evangelica essi solo la possiedono: i poveri e gli umili. Lo creda, caro direttore, io mi sento umiliato davanti a questi ragazzi. Mi sono accorto anch’io che non so fare sacrificio, o, meglio, non so farlo con la semplicità, la inavvertenza ed il candore di questi ragazzi, i miei alpini. Questi fanno la vita dura! Questi hanno la stoffa dell’eroe».
Ed ancora: «Vi assicuro che questi alpini sono la mia “meditazione giornaliera” ed ho imparato ed imparo molte cose da loro. Attuarle, però, è un’altra cosa!». L’ammirazione di don Carlo per gli alpini si spinge sino al più lusinghiero dei giudizi che sia mai stato scritto: «Nella storia di questa valanga di uomini che cozza undici volte contro la ferrea parete della sua prigionia e la sfonda, è difficile raccogliere episodi individuali.
Tutti hanno dato fino all’estenuazione, fino all’eroismo… Tutti hanno compiuto opera veramente sovrumana. Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni di Dio». Gli alpini del canto loro sono affascinati dal loro cappellano, dalla capacità di sorridere e di sperare sempre. Sono affascinati dalla serenità che riesce a trasmettere anche nei momenti più bui. È instancabile. Non si cura di sé e della sua salute e ha sempre una parola di speranza per tutti. Sorride! Sorride sempre. Gli alpini lo cercano, anche solo con lo sguardo, per trovare la forza di continuare a camminare nella neve e con lui tornano a casa.
La loro ammirazione per quest’uomo non diminuisce nemmeno in tempo di pace. Lo seguono, lo vedono girare instancabilmente per andare a portare una parola di conforto alle mamme, alle mogli e ai figli dei dispersi. Lo osservano iniziare a raccogliere i primi orfani, mutilatini e mulattini di guerra. Forse lo considerano un visionario, ma percepiscono che non ha alcuna intenzione di fermarsi. Non è spaventato dalla costatazione di non essere in grado di alleviare il dolore del mondo.
Semplicemente si adopera per questo scopo con una determinazione che tende all’infinito. Non c’è limite alla Carità e nemmeno alla Divina Provvidenza quando l’uomo comprende che deve fare la sua parte senza cercare scorciatoie o attendere che altri facciano qualcosa. Questa lezione gli alpini la conoscono bene. È il loro linguaggio naturale e dunque seguono il loro cappellano e lo sostengono per quanto è nelle loro possibilità.
Sentono che farà cose grandi e non si stupiscono dell’accelerazione che don Carlo riesce ad imprimere alla sua “baracca” e dell’autentico miracolo che riesce a compiere. Don Carlo, però, ha in serbo per loro un dono davvero speciale. Lui, alpino tra gli alpini e reduce tra i reduci, conosce bene quell’angoscia che accompagna tutti quelli che sono riusciti a salvarsi dalla tragedia della Russia e dalla guerra in genere. Conosce perfettamente quella frustrazione che logora l’anima, quella senso di colpa, quel debito insoluto che si sente nei confronti dei compagni che non ce l’hanno fatta. Conosce tutto ciò e, prima di ogni altro, capisce quale sia la via da seguire per ritrovare la serenità.
Capisce che è fondamentale ricostruire la società adoperandosi affinchè quell’incredibile lezione di costanza, di tenacia, di fratellanza, di valore, di amore per la propria terra non venga vanificata dall’oblio ed anzi si perpetui nei fatti, di padre in figlio. Comprende che occorre dare un senso a quell’immane sacrificio facendo quanto è possibile per realizzare i sogni dei compagni lasciati nella steppa che erano partiti per il Fronte con la speranza di fare dell’Italia un posto migliore per vivere e crescere i loro figli. Comprende, dunque, che solo impegnandosi in tal senso si può placare quell’angoscia profonda. Don Carlo non si limita a teorizzarlo. Non sale in cattedra. Semplicemente descrive il suo personale percorso.
«Dalla primavera infausta del 1943, dal giorno che, per chiaro miracolo del Signore, approdai dal fronte russo in tragico sfacelo all’Italia ignara e sfìorente, ho sempre portato nel cuore, fermi aperti e pungenti, gli occhi dei miei morti. E la loro insonne inquietudine ha sempre adombrato la mia pace. Lo sguardo dunque dei miei compagni perduti ho sempre portato desto e conturbante nell’anima fino a pochi giorni or sono, soffrendo come di un debito insoluto verso la morte, sentendone il peso come di un’oscura colpa personale. Ma ora non più. L’altra sera, una chiara e fredda sera invernale spazzata dal vento, i miei piccoli, gli orfani dei miei alpini, dormivano tutti naufragati nei grandi letti bianchi, della casa austera e serena da poco preparata per loro. Dormivano il loro sonno di seta, popolato di corse spensierate al paesello alpestre nella grande casa ancora tutta da scoprire. E nell’oscurità frusciante di innocenti pensieri e di sogni ridenti, tornai a vedere gli occhi desti e trafiggenti dei miei morti. Lente e stanche le palpebre del sonno scendevano su di essi. I miei morti, finalmente, riposavano in pace».
Gli alpini capiscono subito, tornano a camminare con il loro cappellano placano la loro angoscia, ritrovano la serenità e intraprendono con entusiasmo questa nuova strada. La tramandano ai figli e alle giovani generazioni di alpini che si susseguono. Plasmano il nuovo corso dell’Associazione Nazionale Alpini all’insegna di una visione dinamica della memoria. Passano dal “Per non dimenticare” al “Ricordiamo i Caduti, aiutando i vivi” convinti che, per dirla con le parole di don Carlo, «per rifar bella l’Italia, per farla migliore, ci vuole il coraggio degli alpini, ci vuole l’amore della terra degli alpini, ci vuole la sobrietà degli alpini, ci vuole la religiosità degli alpini».
Cesare Lavizzari
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